THE TALENTED MR. FOGNINI – Di Fognini si osserva sempre ciò che poteva succedere e non è successo, piuttosto di ciò che invece ha ottenuto. Perché è nato per fare con naturalezza le cose complicate, con un tennis che possiede qualcosa di segreto in grado di farci pensare che tutto possa accadere. Nel bene e nel male.Il bello di questa storia è che Fabio Fognini è ancora in tempo: per tutto. È atleta integro, è tennista pieno, un trentenne che ha esperienza superiore al logorio. La sua fortuna è l’essere atteso, che è un modo prezioso di esserci: nell’immaginario degli appassionati, nell’urgenza dei cultori. Atteso anche al peggio, nel collezionismo dei profeti di sventura. La sua sfortuna è di confondere il presente con questo avvento che non avviene. Come se la predestinazione divorasse quanto è accaduto, declassandolo. Così 24 finali nel circuito (fra singolo e doppio, divise perfettamente a metà) restano poco, rispetto a quello che non è successo. E questo – infine – non è un modo onesto di valutare nessuno. Curiosamente, i detrattori dell’uomo e del tennista sono i più cinici nell’inventario di un’ottima carriera: dovrebbero invece esaltarne il bottino di guerra, se per loro il discorso pubblico attorno a Fognini è gonfio di retorica, di frustrazioni italiane e di gigantismo. Ma lo stesso accade con i sostenitori del tennista, che vedono con magrezza una carriera pasciuta, con molti anni intorno al vertice di questo esercizio con molti concorrenti, praticato ovunque: il risultato non cambia: Fognini espia lo sperpero di se stesso sopportando due contestazioni, l’una amorevole e l’altra ostile.
D’altra parte, Fognini ha favorito le maldicenze, le ha perfino legittimate in alcune esibizioni prive di amor proprio. Ma a parte un finale di partita nel quale disonorò il mestiere (contro Stepanek, in America, che riuscì a vincere l’ultimo game senza toccare la palla con la racchetta), è certamente Fabio la vittima delle sue mattane: in questo, è intatto il senso di sportività, il patto non scritto del consorzio umano che gioca a tennis. Infatti, nel circo è ragazzo benvoluto.
Per gli incalliti appassionati del gesto, Fognini è un tennista nato per colpire: sa organizzare il dritto con naturalezza e velocità quasi arrogante, per una resa di purezza indiscutibile; sa mettere il rovescio dove serve, non soffre le rotazioni esasperate degli altri, e sa contenere e restituire la velocità. Può ribaltare lo scambio da ogni centimetro di campo, magari chiudere al volo di geometria e di tocco, semplificando soluzioni che sembrano esercizi leziosi di stile. Lo differenzia dalla monotonia dei colpitori progressisti la capacità di variare velocità ed effetti. Ha resistenza e piedi veloci, che ne esaltano le qualità difensive, può padroneggiare lo scambio anche con i più forti, può lasciarsi torturare anche dai più deboli perché – in fondo – è riuscito a elevare il suo gioco nella qualità, ma è mancato di estenderlo nella quantità (nel tempo lungo della successione dei tornei, e nel tempo breve dell’incontro stesso, che vive di enormi contrasti, spesso polari). In lui sembra concretizzarsi una teoria di Nietzsche, che vedeva nel talento un vampiro che succhia sangue ed energia alle altre forze, e una produzione esagerata può portare quasi alla follia l’individuo più dotato (ma parlava, si capì poi, anche di sé, preannunciando l’angosciante fine).
Se tutto questo pare esagerato, stimolato dalla debolezza di chi scrive per questo tennista, bisogna affiancare il giudizio di Corrado Barazzutti, un distillatore di parole che in campo – un tempo – era forse il contraddittorio ideale. «Fognini ha la facilità e la varietà dei migliori nel colpire la palla ed è più bravo dei migliori nel farlo da certe zone impossibili del campo. Fa cose che Federer non sa fare e Nadal non fa più. Si affida a quell’aspetto del talento, ed eccede in questa fiducia. Il suo carattere è così: chissà se lo aiuta o lo diminuisce. La libertà che si prende nel viverlo lo facilita nel manifestarsi. Finché non lo sequestra». Non era impazzito, il ct. In lui c’era la necessità – anche umana, personale – di riempire una parola abusata, di vestirla di concettualità. D’altra parte, il talento è anche un mezzo per nascondersi, ornamentale, esteriore.Così Barazzutti voleva provocare sulla concezione parziale del talento, che in fondo – e questo è decisivo – non è solo un fatto di partenza, ma una costruzione, cosa più ampia e sfumata: «Sicuramente c’è una base di partenza – continua Barazzutti -, la naturalezza nel saper fare cose complicate. La qualità innata: tecnica, fisica. Una base diversa in ognuno di noi. Ed è una definizione ovvia. Poi c’è l’aspetto oscuro: la capacità di raccogliere tutto quello che abbiamo, svilupparlo fino a trovare una forza propria: anche questo è talento. La forza, che poi fa la carriera di uno sportivo, è di più: è il livello raggiunto grazie alle qualità di base e al lavoro».
Non è un giudizio sulle lacune di Fognini, che nella vita, da anni, da sempre, lavora moltissimo sul fisico a secco e sul campo, si è scelto coach ambiziosi abituati a vincere e a spremere. È semplicemente una visione più complessa delle cose. La testa – per Barazzutti – è il sintonizzatore dei molti e diversi segnali che inondano il tennista. È l’accordo che armonizza tutto e lavora contro natura, perché il tennista compete da ragazzo, a 22-23 anni è già chiamato alle partite difficili e quella non è l’età della maturità (a volte non si raggiunge nemmeno a 30 anni, a volte mai). Serve molto talento per gestirsi: forse anche più importante, più fine di quello che ti permette di colpire una pallina. «Forse – concluse Barazzutti in quel momento di autoanalisi – il numero 7 del mondo è stato più bravo del numero 1 perché ha usato il talento per migliorare la sua base di partenza, che era distante».
Gli manca – a Fognini – l’incasso sicuro del servizio, deve dunque guadagnarsi ogni cosa, e questo aggrava la pesantezza psicologica del match, molestandolo proprio nelle fragilità. Con Franco Davin, il nuovo coach che lo segue dalla fine dello scorso anno, ha cercato di alzare il lancio di palla, aumentando l’elasticità complessiva del movimento. Ma nel gesto rattrappito c’è anche la difficile lettura per chi risponde, che resta la sua resa minima e migliore. Sta chiedendo di più alla seconda palla, provando angoli, mettendoci pensiero. Resta questo il colpo debole del repertorio: ed è un colpo fondamentale. Eppure, non va a scontare le considerazioni e le colpe.
Di Fognini c’è una maledetta necessità. Ha vinto tornei ATP 500, fatto semifinali nei proibiti ATP 1000 (spartiti con ingordigia da solo quattro commensali, in un lunghissimo decennio, il dominio di un gruppetto chiuso che mai si era manifestato così tenace nella storia di questo sport). Ha un quarto di finale a Roland Garros, ha vinto grosse partite. Ha fatto cose e le ha vissute certamente con maggiore intensità rispetto ai suoi tifosi, per i quali erano punti di partenza. Possiamo domandarci all’infinito se il difetto è nella stoffa (di lui) o nell’analisi (di noi). Ma se possiamo avere dubbi, è perché il tennis di Fognini possiede qualcosa di segreto, dunque non comprensibile fino in fondo, come se avesse il midollo dei campioni. Ma non basta. Da così lontano non può bastare: deve avvicinarsi al fuoco, deve liberarsi da ossessioni che – succede solo agli sportivi – cominciano da lui e finiscono negli altri.
Il modo più furbo di misurare il talento è nel suo spreco. Ma finisce per essere l’alibi, legittimare quella tesi sull’ornamento. Accomodare i giudizi nel cantuccio dove scaldare i rimpianti, che sono pur sempre un’attrazione della vita: il tempo per dolersene, ci informò Pavese, arriverà poi, con la vecchiaia: così insolente da trasformarli in acciacchi, gravosi e penosi. Ben prima, a ore, Fognini sarà padre. La sua vita s’è inquadrata, con le conseguenze del caso (non per forza prevedibili, né superiori). Può ancora fare tutto, tornare daccapo. Può rompere una racchetta, può vincere al Foro Italico. A questo serve il talento: a farci pensare che possa ancora accadere. Tutto.
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