Per alcuni e il miglior talento del tennis italiano degli ultimi 10 anni. Per altri, il piu grande spreco. Qual e la verita? Per scoprirla, siamo andati  a trovarlo nella sua casa di Monte Carlo.
A Kitzbuhel, Bolelli è tornato a giocare un quarto di finale ATP dopo 3 anni

Da Monte Carlo, Marco Bucciantini
(Tratto da TennisBest Magazine di maggio-giugno)
Foto di Marco De Ponti


Simone Bolelli porta appresso la fatica del talento. C’è chi sa esaltarsi, dentro questa fortuna: il fuoriclasse sa impiegare tutta la sua bravura, imporla agli altri quasi con leggerezza e con essa nascondere i difetti. Altri devono combatterci. Sono appesi al talento come pezzi di stoffa su un filo teso al vento. Dipende da loro, e dal vento, che ha strappato via qualcosa a tanti, anche a Simone. Un polso rotto, quando stava crescendo, intorno ai vent’anni. Ma se adesso, mentre parliamo, Bolelli è il numero 105 del mondo e guarda in televisione (“studia”, dice lui) le semifinali di Montecarlo, dove sudano due tennisti che lui ha sconfitto più volte (e con agio) tempo fa (Simon, Berdych), è anche perché non ha saputo resistere, a quel vento. 
Numero 36 del mondo a 23 anni, dopo un avvicinamento ai migliori fatto bene, un passo alla volta, come chi vuole salire una montagna, saggiamente. «Ma lui vale i primi dieci». Lo disse – e lo ripete ancora – il suo coach di allora, Claudio Pistolesi. E siccome quel pronostico gli è rimasto sulla pelle come una ferita, aggiunge: «Me lo disse anche Tony Roche: questo ragazzo arriva nei primi 10 del mondo». Si può discutere il patriottismo di Pistolesi, non l’occhio di Roche: non è un oracolo qualunque ma uno che nella sua lunga vita sul campo da tennis ha giocato sei finali di Slam e allenato tre numeri uno: Lendl, Rafter, Federer.
 
IO, FEDERER E DINO MARCAN
Un giorno più cupo di altri Cesare Pavese scrisse una frase che spogliata dal tenore drammatico è cinicamente vera: «Tutta la ricchezza degli uomini è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare e prevedere». Riempire ciò che precede la scadenza. Per uno sportivo questo traguardo arriva due volte, perché prima c’è da spremere il massimo da quel tempo fatato che è il professionismo. Così colpisce, in questo bravo ragazzo, la sua voglia di promettere qualcosa. Di rabboccare quel tempo che è rimasto più vuoto di quanto doveva. «Io torno lassù, lo sento. Sto bene, sto vincendo partite e ritrovando fiducia».  A tradimento, Bolelli ci lascia sperare. Perché per stile e soluzioni il suo tennis è il migliore espresso da un italiano dai tempi di due concittadini del bolognese – Paolo Canè e Omar Camporese: due carriere inferiori al talento. Ma in questo spreco Bolelli supera tutti. Nella sua timida risalita che vuol diventare vera, Bolelli gioca anche contro il senso di colpa di aver invertito i fatti: gli anni centrali della carriera sono scivolati via insieme alla sua classifica. «In campo mi sento pronto, più di sempre: ho lavorato sui miei punti deboli, sugli spostamenti dentro il campo». Poi vuole sottolineare la discontinuità: «Dopo due anni così era giusto cambiare qualcosa, nelle persone e anche nei metodi. Quest’inverno l’ho fatto». 
Lo segue Simone Ercoli, lo allena Eduardo Infantino: biglietti da visita notevoli (anche se è novità di luglio la partnership con Umberto Rianna, ndr). È stato a Tandil, al «campo di lavoro» del preparatore atletico argentino: «Là c’è grande scrupolo e cura di tutto quello che viene fatto. Così ti abituano alla fatica mentale e fisica, alla dedizione continua verso il mestiere. In questo, sento di aver fatto un salto di qualità che voglio ritrovare poi in partita».
Una volta di lui dissero: «Somiglia a Federer». È un paragone facile e vigliacco. Facile perché la semplicità, l'eleganza, la fluidità dei colpi da fondo campo è evidente, e vigliacco perché sì, Federer è un'espressione pratica del manuale del tennis e chiunque esprima naturalezza nei colpi può ricordarlo, ma è un esempio, e lì deve restare: non può essere un raffronto sul quale misurarsi. «Entrambi giochiamo il rovescio con una sola mano, ma la somiglianza finisce lì. Federer è il tennis, io solo un tennista». Sembra Federer ma è fuori dai primi cento del mondo e l'anno scorso a Umago perse nelle qualificazioni contro Dino Marcan, «un ragazzo croato di quelle parti, numero 500 del mondo. Certo che me lo ricordo, fu il punto più basso. Ero sfiduciato, e perdevo. Ho avuto paura di non ritrovarmi più, vedevo la classifica peggiorare, settimana dopo settimana, e in campo finivo per perdere match che credevo di vincere. Però non ho mai pensato di mollare, ho sempre creduto di avere ancora molti anni davanti, mi sono sentito sempre un tennista. E so che ho la qualità per tornare a vincere».
 
LA GIOSTRA DEI MIGLIORI
Siccome sa di avere l’onere della prova e sa che deve ancorare i suoi sogni a qualcosa di pratico, racconta con fierezza la sua giornata di fatica, quando non ci sono di traverso le partite: «Mi sveglio presto, alle sette, e vado subito a correre per circa mezz’ora, prima di colazione». Sicuramente non soffre di pressione bassa. «Mi aiuta a tenere il fiato e ho metabolizzato questa abitudine». Dopo colazione, «palestra e tennis. E dopo pranzo, l’inverso: tennis e palestra. Verso sera, ancora un po’ di lavoro anaerobico, più tecnico: corsa dentro il campo, ripetute». . Per essere più agile in campo, si allena con tute imbottite di peso. «Ho ancora cinque o sei anni di carriera e posso scrivere un’altra storia. Non mi rassegno, il tennis è la mia vita, so che posso tornare anche più forte. Ho 26 anni: è un’età da best ranking, non da viale del tramonto. Lo so, mi ero creato un’occasione, e l’ho lasciata lì. Adesso cerco di ritrovarla. Il gioco sta tornando. Copro meglio il campo, queste sensazioni mi mancavano. Ci tornerò nella giostra dei migliori, e non scenderò». 


  
LE CONVINZIONI DI PISTOLESI
Cominciò a giocare da solo, non per vocazione familiare («Mio padre giocava a calcio, mamma non faceva sport»): c’erano i campi da tennis vicino casa e Simone s’incuriosì. Non avendo palleggiatori in famiglia, il primo avversario fu il muro. Poi ha cominciato il maestro Andrea Saetti a rimandare di là la pallina, al Country Club di Villanova di Castenaso. Il passo avanti fu la recisione del cordone ombelicale e il viaggio a Cividino, nel bergamasco, da Renato Vavassori e Luca Ronzoni. I tennisti lasciano la casa da ragazzini, non sono bamboccioni, nemmeno quelli italiani. «Adoravo Edberg e poi Rafter. Giocatori d’attacco, che chiudevano il punto al volo. Curioso, io a rete non ci andavo mai, nemmeno da juniores». Peccato, perché un colpo al volo anche schematico sarebbe perfetto per chiudere il punto dopo il cannoneggiamento da fondo. Ne era convinto Pistolesi: «Dovevamo cucire la volée al suo gioco, poi era pronto per giocarsela con tutti». Già, perché dopo lo svezzamento, arrivò il coach e sembrava una cosa bella, tutta prodotta qui: il talento bolognese e l’allenatore core de Roma, ma nient’affatto provinciale. La classifica assecondava: da 280 a 36 del mondo in tre anni. «Per Simone ho rifiutato tutto il resto. Non c’era proposta che mi allettasse di più. Ci credevo, e lo rifarei». Pistolesi ha ricordi impastati con qualche rimpianto: «Simone ha un’accelerazione di braccio straordinaria. È una qualità naturale, è il talento. Ha un servizio che frutta punti sicuri. La crescita era costante, insieme stavamo bene e arrivavano vittorie prestigiose contro Simon, Del Potro, Berdych, Gonzalez, Soderling. Doveva migliorare nel gioco di volo, per faticare meno in certe partite. Ci stavamo lavorando, per questo rinunciammo alla convocazione in Coppa Davis».
 
IL TESTACODA DELLA DAVIS
Ed ecco il testacoda della storia. Bolelli che non va a Montecatini a sfidare i lettoni di Gulbis sulla terra battuta, preferendo giocare sul veloce, e coltivare la classifica. Diventa una guerra: la federazione squalifica a vita il giocatore, «Mai più in Nazionale», e carica di toni allucinanti: «Bolelli non è un uomo», ai quali segue l’ostracismo totale e ottuso. Lui restituisce la tessera Fit in una memorabile conferenza stampa, lucida e spietata. La pace verrà siglata un anno dopo e sul piatto finisce la testa di Pistolesi, che la Federtennis di Binaghi considera un nemico con il quale è vietato patteggiare. Bolelli torna in Davis, lasciando il testimone di reietto a Seppi. È una vicenda che abbiamo riassunto a spanne, con un finale che potrebbe anche andare bene, se non fosse che Simone si perde e va giù, fino a quella sconfitta con il ragazzotto croato. Di quelle tribolazioni, Bolelli tiene un punto: «Questo è l’unico Paese al mondo dove se chiedi di rinunciare a un turno di Davis finisci in punizione». Ma è una constatazione dentro un linguaggio diverso, fatto di ringraziamenti a Binaghi: «Angelo è il primo ad aiutarmi, sono contento di aver ritrovato un bel rapporto con la Federazione, ci tenevo. Pistolesi? Lo incontro, parliamo, scherziamo, è una storia passata». Qualcosa però è rimasto: «Sto lavorando sulla volée, sarà la chiave per battere quelli più forti. Quando incontri Murray, Nadal o Djokovic, se non vai avanti a chiudere e resti dietro, finisce che fai quello che vogliono loro. Nel tennis di alto livello serve qualcosa in più per fare punto, non basta il gioco di pressione da fondo, a meno di non avere l’intensità e la costanza dei fenomeni». Che Bolelli inquadri certi avversari, e s’industri per cercare tattiche contrarie alla loro forza, è un altro segnale incoraggiante, prima ancora che megalomane. Al miglior Bolelli mancavano alcune cose, non tutte fondamentali: si muoveva male lateralmente, era poco reattivo sulla risposta (faceva un sacco di ace e ne buscava altrettanti), a volte il rovescio zoppicava, difettava di varietà di schemi, nonostante una buonissima mano. E forse latitava di spirito combattivo, anche se Pistolesi nega: «Andatevi a vedere quante partite ha vinto 7-5 al terzo set». Al Bolelli di oggi non manca certo il frasario, che potrebbe denotare un’inclinazione finalmente ardimentosa, ma attendiamo conferme (in campo).
 
IL TENNIS? IL MASSIMO
Non gli piaceva studiare, e prima o poi vorrebbe fare quell’ultimo anno di Ragioneria che ancora manca per il diploma. «Ma i genitori non mi hanno mai assillato, comprendendo le mie scelte. Non credo sia stato facile per loro vedere un figlio andar via a 15 anni: i laureati ci stanno di più, a casa con mamma e papà. Sono rinunce e ogni tanto ti assale il rimorso di aver perso qualcosa, ma le soddisfazioni di questa vita e di questo sport non saprei trovarle altrove. Vincere un match è il massimo perché sei solo, in campo, e ti carichi di tutte le responsabilità. Dai la vita al tennis, ogni ora, ogni cena sorvegliata, senza sgarrare. E il tennis ti ripaga, come ogni sport individuale: ti mette a nudo davanti a te stesso, è uno specchio che non mente. Il lavoro e i sacrifici tornano indietro, deve essere così. Io ho sempre avuto naturalezza nel diritto e il servizio usciva potente. Il rovescio invece l’ho costruito, piano piano, giorno dopo giorno, palla dopo palla. Sto facendo così anche per l’elasticità muscolare, per muovermi meglio».
 
UN DOPPIO (MISTO) VINCENTE
Simone è un bel ragazzo, e ha maritato all’altezza, con la modella uruguaiana Ximena Fleitas. «Il matrimonio mi ha fatto crescere, mi andava di sposarmi, lei adesso è un mio punto di riferimento. Anche in questi mesi difficili, lei c’era». Capita di trovare foto mica male di entrambi sulla rete. Lei per mestiere mostra il meglio che ha, ma anche Simone s’incontra a petto nudo, proteso nell’allenamento. «Vabbè, quando è caldo mi alleno così, e risparmio cinque magliette che infradicerei di sudore. Poi, se dicono che sono bello mi va bene, ma non m’impegno certo per apparire un modello». Due calibri del genere si sono conosciuti alla maniera dei cuori solitari e sfigati: «Su Facebook, dove avevamo amici in comune. Poi ci siamo incontrati a Roma, quando ancora mi allenavo con Claudio. Lei faceva la spola e adesso viviamo a Montecarlo. Quando siamo insieme ci piace andare al cinema, a vedere film d’azione o comici. Quelli sentimentali no, mi annoiano, serve un po’ di carica… Il Gladiatore è il mio preferito, inarrivabile». Anche quella è la storia di un ritorno per un virtuoso generale sprofondato in schiavitù che poi, piano piano, cerca di tornare a un passato per lui impossibile e perduto, combattendo una partita alla volta. È una suggestione, niente di più. «Quando sono solo, durante i tornei, la sera in albergo mi metto a navigare, mi aggiorno sulla tecnologia e sono appassionato di orologi: li cerco, li valuto. Nell’iPod c’è musica pop, i Queen, Lady Gaga, Beyoncé. Ma se c’è il tennis in televisione, guardo quello e cerco nei colleghi i loro segreti, la loro bravura, come sanno coprire il campo. Se per esempio giocano Federer e Djokovic mi fermo a guardarli, li ammiro. Il serbo è il numero uno perché riesce a giocare ad un’intensità pazzesca, per molte ore, sbagliando pochissimo. È una macina che non lascia scampo». 
 
IL SOGNO DEL BOLE
Un giorno non troppo lontano del tempo passato, Bolelli dominò Del Potro a Roland Garros. Chi ha visto quel match, quell’esibizione di purezza tennistica, conosce perfettamente l’orizzonte di questo bolognese educato, pacato, quasi sempre sorridente. «Per adesso è stato il migliore della carriera, ma ne ho sconfitti molti che adesso stanno nei primi venti del mondo, gente che non si lascerebbe mai battere. Questo mi infonde la certezza che tornerò. E voglio un punto bellissimo, un diritto vincente con cui chiudere il match, al quinto set di una sfida decisiva in Coppa Davis e chiudere la carriera senza rimpianti, sereno, e invecchiare accanto a una famiglia robusta. E con la coscienza a posto».