L’INTERVISTA – Pochi sanno che Yen Hsun Lu ha un allenatore italiano. Roberto Antonini lo ha guidato alla sua prima finale ATP. Una grande storia passata sotto traccia. 
Yen Hsun Lu lavora con Roberto Antonini dallo scorso settembre. Stanotte sfida Grigor Dimitrov

Di Riccardo Bisti – 16 gennaio 2014


Il padre di Yen Hsun Lu era un cacciatore di polli. Per acchiapparli bisognava essere veloci come Speedy Gonzales, magari con il favore delle tenebre. E' così che "Rendy" ha sviluppato velocità e riflessi. Ma poi papà è morto, lasciandogli un vuoto enorme. Ma gli aveva promesso che sarebbe entrato tra i top-100. Ce l’ha fatta, raggiungendo uno storico quarto di finale a Wimbledon. Il taiwanese è il più titolato di sempre nei tornei challenger, ma vuole fare un ultimo sforzo per avvicinare un sogno dichiarato anni fa: diventare il primo cinese tra i primi 10. E ha deciso di farsi aiutare da un coach italiano. Un nome pressochè sconosciuto, ma che si è fatto strada a suon di risultati. Una storia che rischiava di finire nel dimenticatoio. Non sarebbe stato giusto. Roberto Antonini siede all’angolo di Lu, rinuncia alla percentuale sui prize money, fa base con lui a Guangzhou e lo ha appena guidato alla prima finale ATP in carriera. Ce n’è abbastanza per volerne sapere di più, direttamente dagli spogliatoi di Melbourne Park.
 
Un italiano che allena un taiwanese. Un po’ strano. Come ci siamo arrivati?
Sono coetaneo di Davide Sanguinetti. Siamo cresciuti insieme, eravamo tra i migliori junior italiani. Io smesso di giocare molto presto, intorno ai 18-19 anni. All’epoca era difficile viaggiare, c’erano problemi economici…così ho iniziato a fare il maestro nella mia Pesaro. Qualche anno fa ho iniziato a lavorare con Davide, e ho avuto l’opportunità di intraprendere una carriera internazionale. Oltre a Sanguinetti, devo ringraziare Claudio Pistolesi e Alberto Castellani, due persone importantissime nella mia crescita. Senza di loro, non sarei qui. Sono gli unici che mi hanno davvero aiutato nel mondo del tennis. Esperienze? Ho seguito Nastassja Burnett per un periodo di 6-7 mesi, poi la collaborazione si è interrotta soprattutto per motivi logistici, volevano che mi trasferissi a Roma. In Italia, poi, ci fu un contatto importante che però non si concretizzò. Il grosso della mia carriera si è sviluppata con giocatori stranieri: ho fatto un anno con il giapponese Tatuma Ito, ed è andata molto bene, visto che è salito dal numero 150 al numero 80 ATP. E’ finita a causa di una divergenza di idee, in particolare sull’argomento del preparatore atletico. Poi ho seguito per un anno Uladzimir Ignatik, arrivando al numero 130 partendo dal numero 300. E’ finita a causa dei problemi economici: al di sotto di un certo ranking è davvero dura permettersi un coach. Poi, lo scorso anno, c’è stata l’opportunità di lavorare con Shahar Peer: l’inizio fu strepitoso, con un successo in un torneo WTA 125, ma lei è una ragazza difficile da gestire. Quando eravamo a Guangzhou ho conosciuto Alan Ma, boss dell’accademia dove faccio base adesso. Dovevo decidere se andare avanti con la Peer, ma non ero convinto al 100%, allora ho optato per questa soluzione, e da qui è iniziata la collaborazione con Yen Hsun Lu.
 
Da quanto tempo lavorate insieme?
Da settembre. Direi che i risultati non sono malvagi. Ha subito vinto un challenger a Taiwan, poi ha chiuso discretamente l’anno e abbiamo svolto un'intensa preparazione. Nel 2014 ci siamo presentati con la sua prima finale ATP, ad Auckland, dove ha battuto anche David Ferrer.
 
Che tipo di lavoro si fa con un giocatore di 30 anni? Può migliorare ancora?
Assolutamente. “Randy” è un ragazzo fantastico, un grande lavoratore, un vero professionista. Dopo appena una settimana di lavoro abbiamo cambiato metodi di allenamento. Si può sempre migliorare, sotto tutti i punti di vista. Nello specifico, sto cercando di farlo crescere mentalmente e migliorare il suo body language. A volte sembra un po’ troppo remissivo.
 
Che tipo è? Le differenze culturali si sentono?
Gli asiatici portano grande rispetto, lui non fa eccezione. Ha un rispetto assoluto per la figura dell’allenatore. Si lavora sodo. Certo, hanno una mentalità diversa, soprattutto nel manifestare gli affetti. Mostrano le emozioni in misura inferiore, ma è un piacere lavorare con loro.
 
Dove vi allenate? Quanto tempo passate insieme?
Facciamo base in Cina, presso un’accademia a Guangzhou. Trascorro con lui la maggior parte del tempo, abbiamo un accordo full time che prevede la mia presenza praticamente a tutti i tornei. Il team è tutto italiano: ci sono i preparatori atletici Stefano Baraldo e Carlo Bilardo, oltre al fisioterapista Piergiorgio Luciani. Negli ultimi cinque mesi, ho trascorso in Italia appena 10 giorni. Dopo l’Australian Open tornerò a casa per tre settimane, poi di nuovo via per altri due mesi.
 
Come mai alleni un taiwanese e non un italiano, magari un giovane?
In Italia ho sempre fatto fatica. C’era stato un aggancio importante, ma non si è concretizzato. C’è la mia accademia a Pesaro che funziona piuttosto bene, vi sono cresciuti diversi juniores di buon livello. Tuttavia, non sono quasi mai arrivate offerte interessanti. All’estero è stato molto più facile.
 
Come vedi la situazione dell’insegnamento del tennis in Italia?
A livello tecnico non siamo secondi a nessuno. La pecca riguarda la mentalità: da quel punto di vista, siamo piuttosto indietro rispetto ad altre nazioni. Altrove ho riscontrato più voglia di lavorare e meno di fare ‘i fenomeni’. Per intenderci, i ragazzini cinesi escono da scuola e vanno ad allenarsi. Tra tennis e preparazione atletica, lavorano 5-6 ore al giorno. E non sto parlando di gente forte, ma di livello medio-basso. Da noi non c’è una mentalità internazionale, c’è poca voglia di girare il mondo. Tuttavia, mi dicono che qualcosa stia cambiando. Speriamo.
 
Chi è il miglior coach al mondo? E perchè?
Mi piace molto Josè Perlas. La sua carriera parla per lui, sta facendo grandi cose con Fognini. Porta avanti il metodo spagnolo che, dopo tanti anni, continua ad avere i suoi punti fermi. Lavorano molto sulla ricerca della palla, sui movimenti avanti-indietro, gli spostamenti, gli appoggi. La storia insegna che è un metodo efficace, e Josè è stato tra quelli a utilizzarlo meglio. Adesso c’è la moda degli ex campioni, ma francamente non mi entusiasma. Vedremo.
 
Progetti a lungo termine? Dove ti vedremo in futuro?
Difficile a dirsi. Passerò tutto il 2014 insieme a Lu. Abbiamo siglato un accordo annuale, poi alla fine tireremo le somme. Il mio sogno è allenare un giocatore nella top-20 ATP. Attualmente seguo un numero 50, vediamo…inoltre tengo molto a portare avanti la mia scuola a Pesaro. Non posso seguirla in prima persona, ma ci sono dei validi collaboratori che portano avanti i programmi stilati dal sottoscritto. Da noi c’è Erik De Santis, campione italiano Under 12. L’accademia si chiama Tennis Time ed è ospitata presso il Circolo Tennis Baratoff.
 
Come mai così tanti allenatori italiani finiscono all’estero o lavorano con tennisti stranieri?
Parlo per me: in Italia non ho avuto grandi richieste. Forse perchè nessuno è profeta in patria, anche se c’è un ottimo allenatore come Massimo Sartori che ha costruito Andreas Seppi. Non so, credo di aver ottenuto buoni risultati, ma in Italia non è semplice lavorare.
 
Com’è l’entourage intorno a Yen Hsun Lu?
Tipico degli orientali. Io ho avuto a che fare soprattutto con il fratello. Rendy è sposato, ma la presenza di sua moglie è molto discreta. Non ho avuto alcun tipo di problema, anzi, hanno cercato di aiutarmi sin dall’inizio. Hanno subito creduto in me, si è creato un ottimo feeling. Si collabora tutti insieme, siamo un vero e proprio team. A livello manageriale, è seguito dal tedesco Dirk Hordorff, l’ex coach di Rainer Schuettler e tanti altri.
 
Che tipo di accordo economico avete sottoscritto?
Per il 2014 percepisco un fisso, senza alcuna percentuale sui prize money. Abbiamo deciso così, nella speranza che le cose vadano sempre meglio e si possa cambiare qualcosa in futuro. Ovviamente mi sono corrisposte tutte le spese. E’ un rapporto esclusivo, seguo soltanto lui.
 
Come vive il dualismo tra Taiwan e Cina? Cosa pensa del possibile cambio di nazionalità di Su Wei Hsieh?
Su questo punto non abbiamo parlato, glielo chiederò. Lui rimarca sempre la differenza tra Taiwan e Cina, evidentemente la sente. Ha giocato in Coppa Davis fino a qualche anno fa, poi ha smesso percè non era soddisfatto dal punto di vista economico. Non penso proprio che possa prendere in considerazione un cambio di nazionalità come accaduto alla Hsieh, anche se facciamo base proprio in Cina e si trova molto bene.
 
Il tuo rapporto con il clan italiano? Come ti relazioni con i personaggi più in vista?
Sono un tipo piuttosto schivo, non amo mettermi in mostra. Forse anche per questo sono poco conosciuto. Sto lontano dai riflettori. In verità ho un ottimo rapporto con tutti. Conosco Riccardo Piatti, quando ero un ragazzo mi sono allenato alle Pleiadi di Moncalieri, dove è partito il suo progetto. Conosco molto bene Barazzutti, tanti anni fa mi sono allenato nella sua accademia, abbiamo un rapporto più che buono.
 
E se arrivasse qualche offerta dall’Italia?
Non so, fino ad oggi non è successo. La prenderei in considerazione e ci penserei su. Quello che sto facendo mi soddisfa e mi fa sta facendo crescere molto sul piano professionale. 

LA CURIOSITA'
Il padre di Roberto Antonini era il fisioterapista della mitica Scavolini Pesaro di basket. Da grande appassionato di tennis, convinse il patron a investire anche sul tennis, creando uno dei primi squadroni di Serie A1. Fu grazie al suo interessamento che nacque una squadra composta dai fratelli Panatta, Adriano e Claudio.