(Ri)spuntato quasi dal nulla, Ernests Gulbis artiglia gli ottavi a Wimbledon decretando l'ennesimo fallimento Slam di Alexander Zverev. Qualche mese fa incassava dolorose sconfitte nei tornei Challenger, ma un'intelligenza sopra la media gli ha permesso di non cadere nel vortice dello sconforto. Come ci aveva confidato dopo una dolorosa sconfitta contro Lorenzo Sonego.È difficile sorprendersi quando c'è di mezzo Ernests Gulbis. La vittoria più splendente può essere seguita dalla sconfitta più rovinosa. Per questo, in pochi hanno gridato al miracolo quando ha superato Alexander Zverev sul Campo 1 di Wimbledon. Tutti sanno che il Principe Ernests (nato il 30 agosto 1988, sotto il segno della Vergine) è in grado di raggiungere straordinari picchi di rendimento. Quest'anno ha perso contro Gianluca Mager ad Aix en Provence, mentre qualche mese prima aveva ceduto a Lorenzo Sonego a un altro Challenger, a Bergamo. Però, nell'afa britannica che sta bruciando l'erba di Wimbledon, prima si è preso la rivincita sul torinese nelle qualificazioni, poi ha decretato l'ennesimo fallimento Slam di Alexander Zverev. Lo ha fatto con merito, al netto di problemi fisici del tedesco: fino a prova contraria, se rimani in campo è perché sei in grado. E allora torna alla ribalta l'affascinante personaggio Gulbis, uno dei pochi che riesce a non essere mai banale quando apre bocca. Noi lo abbiamo incontrato qualche mese fa, a Bergamo, e ci ha raccontato le ragioni che lo spingono ad andare avanti. E a sperare di vivere momenti come questo. Nella speranza che l'avventura londinese possa andare avanti. Il suo prossimo avversario sarà Kei Nishikori.

È difficile per te rimanere motivato quando sei costretto a tornare a giocare i Challenger, dopo essere stato numero 10 al mondo e ripetutamente negli ottavi di finale di uno Slam?
Penso sia difficile fare una cosa se non capisci perché la stai facendo. Se hai una comprensione chiara della ragione per la quale stai facendo ciò che fai, allora non è dura per nulla. Vai e la fai, non può che essere facile. La parte più difficile delle cose è capirle, e questo vale per ogni aspetto della vita, non soltanto per il tennis.

E qual è la tua ragione personale per continuare?
La mia ragione è che voglio giocare ancora per altri 4, spero 5 anni. Che voglio tornare almeno tra i primi 20, magari tra i primi 10… Penso ancora che sia un obiettivo molto realistico. Ci sono molti giovani che stanno emergendo e si stanno affermando ma a 29 anni non mi considero già vecchio. Ho sicuramente ancora 3-4 anni al massimo potenziale davanti a me, se riesco a stare bene dal punto di vista fisico. È una risposta semplice, no? (Ride).

Direi di sì. Anche se due anni fa dicesti: “Non riesco proprio a immaginarmi giocare ancora a trent’anni o più, se non nell’élite del tennis”.
Sarebbe molto, molto triste se una persona non fosse in grado di adattare i propri obiettivi. Se dici la stessa cosa quando hai vent’anni, quando ne hai trenta, quando ne hai quaranta significa che non ti stai evolvendo, e invece evolversi è necessario. Io spero di starlo facendo. Sai, in Lettonia abbiamo un proverbio: tieni il dito per aria. (Mima il gesto di sentire la direzione del vento). I tempi cambiano, le situazioni cambiano, un sacco di cose cambia… Probabilmente anche tu adatti i tuoi obiettivi e ti evolvi col passare del tempo.

Parlando di cambiamento, leggi mai quello che scrive di te la stampa?
Molto, molto raramente. Se un articolo di giornale che parla di me mi finisce sotto il naso lo leggo, ma non vado mai a cercarne.

Tante volte, dopo un grande torneo o anche soltanto un singolo grande incontro, si sono letti titoli come “Il nuovo Ernests Gulbis”. Vorrei sapere in che modo tu pensi di essere cambiato, quando, sotto quale aspetto…
È passato molto tempo da quando ho iniziato a giocare a tennis. Ho preso una racchetta in mano quando avevo quattro anni, poi ho continuato, ormai posso già considerarlo un lungo viaggio. Ho avuto idee e conoscenze diverse sul tennis, sul mio gioco, sulla vita in generale che sono cambiate all’incirca ogni tre anni, forse. Ma uno ha i suoi principi come essere umano, e questi principi non cambiano – se sono giusti. Per questo, però, serve che tu sia stato cresciuto nel modo giusto, serve che la tua famiglia ti abbia dato le giuste basi. Le piccole cose cambiano, quelle temporanee, e il tennis è una cosa temporanea. Si gioca ogni singola settimana, ognuna è diversa dall’altra, va tutto molto velocemente. Non è come altri sport tipo le discipline olimpiche, ad esempio, che hanno la loro competizione più importante una volta ogni quattro anno. La tua mente è impostata in maniera completamente diversa. Ogni settimana c’è qualcosa di nuovo. Qualcuno vince un torneo e improvvisamente è la star assoluta, quando la settimana precedente era un completo signor nessuno; poi perde due volte di fila al primo turno e si ritrova in fondo a una buca, con tutti che si domandano: “ne uscirà fuori?” Le persone hanno la memoria molto corta.

Ti sei sentito trattato in modo diverso dalle stesse persone a seconda dei tuoi risultati?
Sì. Dovresti chiedere a loro il perché, però. Io faccio davvero del mio meglio per non trattare nessuno in modo diverso, a prescindere da come sto giocando, perché questo è un gioco. Il tennis non è chi sei. È una bella parte della tua vita e un ottimo strumento per scoprire te stesso, per sperimentare queste sensazioni di successo e fallimento, per imparare le ricompense del duro lavoro e il prezzo che paghi quando fai qualche c…ata. In una sfera diversa, diciamo semplicemente in un lavoro standard, gli effetti delle tue azioni li vedi dopo decenni. Qui li vedi ogni-singolo-giorno. Ti insegna tantissimo sull’importanza del più piccolo degli sforzi.
Sembra che questa chiacchierata ti stia piacendo…
Sì, almeno sto parlando con qualcuno dopo tre giorni. (Ride).

Stai viaggiando da solo?
Sì, tutto solo.

Lo scorso anno viaggiavi assieme a un coach tuo connazionale, Piotr… Necajevs? (Pronunciato in maniera sbagliata). Come si pronuncia?
Necajevs. (Pronunciato in maniera corretta). È un amico di vecchia data.

Necajevs. (Pronunciato in maniera leggermente meno sbagliata). Non è facile! Ad ogni modo, qual è la tua situazione da quel punto di vista al momento?
Ho lavorato molto duramente negli ultimi quattro mesi: ho svolto una lunga preparazione off season, a Tenerife e poi a Vienna, con il mio coach Gunter Bresnik.

Quando tu e Bresnik vi separaste nella primavera del 2016, fu perché lui si stava concentrando sull’ascesa di Dominic Thiem e tu invece avevi bisogno di qualcuno che potesse concentrarsi al 100% su di te. Ora siete tornati insieme.
Sì, e il rapporto tra noi due è ottimo. Lo è sempre stato, anche quando ci siamo separati… Certo, per forza ci sono stati degli attriti qua e là, ma… Nulla nel nostro rapporto ha mai superato quel limite da oltre il quale non si può tornare indietro. In ogni rapporto c’è quel punto limite, e se vai oltre inizia il disastro; noi non ci siamo mai andati neppure vicini. Potevamo sempre alzare la cornetta del telefono e chiamarci. Sì, ho passato del tempo lontano da lui. Ma anche quando ci siamo separati ero consapevole del fatto che lui è il miglior coach che ci sia in giro dal punto di vista tecnico. E tra il 2013 e il 2015 è riuscito a conoscermi davvero, a un livello ben più profondo del semplice colpire dritti e rovesci. Sa come approcciarmi, sa come allenarmi. Perché un gran numero di persone che mi hanno circondato nel corso della mia carriera mi hanno detto – parole loro, non mie – che sono “difficile da allenare”. E questo è perché sono molto esigente: faccio domande e mi aspetto di sentire risposte logiche. Se qualcuno non è in grado di darmi quelle risposte logiche perdo fiducia in lui, o almeno nel suo metodo di lavoro. E quando un tennista perde fiducia nel proprio allenatore perde fiducia in se stesso, ed è un problema. Gunter ha trovato modi per guadagnarsi la mia fiducia, e li ha trovati durante ogni singola sessione di allenamento. Questo è ciò che rende la nostra chimica davvero speciale sul campo. Sfortunatamente per me, e fortunatamente per lui, Dominic sta avendo un enorme successo perciò non può dedicarmi tutto il tempo che ha, ma fa del suo meglio.

Quindi non ti senti l’ultima ruota del carro.
No, no, no. Questo proprio no. Ovviamente non posso aspettarmi che sia sempre libero per me, ad esempio quando dico che voglio tornare ad allenarmi in Lettonia per un paio di settimane non posso aspettarmi che mi segua, perché lui ha la sua base e la sua accademia a Vienna. Dobbiamo trovare dei compromessi. Ma quando sono a Vienna lui trova sei ore al giorno soltanto per me, altre sei ore per Dominic e poi… Poi se ne va a dormire. (Ride). È una faticaccia anche per lui, apprezzo davvero ciò che sta facendo per me.
Parlando di matrimonio… Cerchi di tenere segreta la tua vita privata, ma so che ti sei sposato. Perciò: congratulazioni.
Grazie. (Sorride).

Hai svolto un lavoro eccellente nell’evitare che le foto finissero su internet…
(Ride). Ad essere sincero avremo scattato una, al massimo due foto che tengo sul telefono. È stata una cerimonia molto intima.

Molti tennisti sposano colleghe. Tu sei un’eccezione.
Lei (la designer di gioielli georgiana Tamara Kopaleyshvili, ndr) era la persona più lontana possibile da qualsiasi sport. (Ride). Ma non me ne potrebbe importare di meno, sono innamorato della persona che è. Anzi, magari questo fatto è persino collegato al fatto che sono innamorato di lei, come lo sono tutti gli altri. Adesso però sta venendo completamente coinvolta. Vede quando tempo e quanto lavoro metto nel tennis, vede che è davvero importante per me. Per me è importante concludere la mia carriera in un modo che mi faccia sentire fiducioso come uomo, come essere umano. Lei se ne accorge, lo capisce e mi aiuta tantissimo in tutte le maniere che può. La persona che ti sta a fianco può darti quel supporto aggiuntivo, quella carica di energia positiva in più…

Parli di questi eventi della vita con le parole di un uomo molto maturo. Dobbiamo aspettarci anche un Gulbis Jr. a breve, o è qualcosa che vuoi rimandare a quando la tua carriera sarà conclusa?
Diventare padre, eh? (Sorride molto). Questa è l’unica cosa che sto tenendo top secret.

Torniamo al tennis allora: nel corso degli ultimi incontri ci sono state molte piccole cose che ti hanno dato sui nervi, come ad esempio gli spettatori che si muovevano… È difficile per te mantenere la concentrazione sul campo e lasciarti scivolare queste cose addosso? Non so se lo sai, ma durante le NextGen Finals di Milano è stata testata una nuova regola che permette agli spettatori di muoversi liberamente sugli spalti durante il gioco.
Dipende. Per esempio, se stai giocando su un grande campo centrale, in uno Slam, come a New York o a Parigi, lì non senti troppo questo genere di disturbo. Se invece giochi su un campo più piccolo… La cosa peggiore è quando ci sono dieci o venti spettatori in totale, e uno di loro si muove o inizia a parlare. Risalta, lo noti subito. Quando gioco in uno stadio non faccio mai attenzione a questo genere di cose perché l’intera atmosfera, l’ambiente vibra e non percepisci un singolo rumore. Forse consentire agli spettatori di muoversi su un campo grande non sarebbe un problema, ma su uno più piccolo sarebbe fastidioso per molti tennisti, non soltanto per me. In ogni caso, ovviamente devo lavorare sulla mia concentrazione: l’aspetto che hai menzionato non è per nulla buono per il mio tennis.

La Lettonia ha te, Ostapenko, Sevastova…
Che è tantissimo, per un paese con meno di due milioni di abitanti.

Però tu non sei un tennista completamente cresciuto in Lettonia, essendoti trasferito all’accademia di Niki Pilic a Monaco quando avevi 12 anni. Hai comunque contatti con le altre due top player nazionali?
No, non un granché. Ovviamente le conosco, e quando ci incontriamo parliamo. Conosco Sevastova da quando si allenava anche lei a Monaco, e Ostapenko la ricordo quando era davvero una bimba, faceva la raccattapalle o qualcosa del genere, ma poi ho iniziato a girare il mondo. E a un certo punto all’improvviso me la sono ritrovata sul tour.

C’è qualcos’altro di lettone nel tennis. È il Meldonium (il farmaco che è costato la squalifica per doping a Maria Sharapova, ndr). Qualcuno ti ha mai consigliato di prendere qualche pillola, o cose del genere?
Mai accaduto.

E l’altra piaga del tennis, il match fixing?
Mai. Penso che la gente abbia paura di approcciarmi. Perché ho la reputazione di essere una persona con un sacco di soldi, perciò nessuno viene a provare a comprarmi con una somma che rischierebbe di non interessarmi. Inoltre, ho anche la reputazione di essere estremamente diretto, e quelli che non mi conoscono non sanno mai cosa aspettarsi da me. Potrei inc…armi, prenderli per il collo e trascinarli dal supervisor. La gente è intimidita da me. In queste situazioni almeno è un bene, così non devo avere a che fare con certa feccia.

Ci sono altri ambienti professionali che ti attraggono? C’è qualcos’altro di preciso che vorresti fare nel dopo-carriera, magari qualcosa che avresti scelto come lavoro se non avessi fatto il tennista?
Sono un grande appassionato di tecnologia, ma nulla di particolarmente pazzoide. Non lo so. Ultimamente ho pensato ad allenare, stranamente. Ma dovrei farlo alle mie condizioni. Non vorrei allenare per soldi, e nemmeno per puro divertimento, ma perché penso davvero di poter tramandare un po’ della conoscenza e un po’ dell’esperienza che ho ai ragazzi più giovani. Specialmente mi piacerebbe allenarmi con ragazzi di diverse età, perché penso di vedere oggi alcuni aspetti tecnici del gioco meglio di come li vedevo qualche anno fa e penso che questo possa aiutarli. Questa sarebbe la ragione, non il mio guadagno. Sembra stupido detto da me, ma oggigiorno tutto dipende da quanti soldi hai. Se puoi dare un sostentamento a te stesso e alla tua famiglia, garantire una vecchiaia serena ai tuoi genitori e un futuro ai tuoi figli, pensare al futuro… In questo senso il denaro è importante, nel senso di quanti soldi avrai al termine della tua carriera di tennista. Se ne avrai abbastanza, potrai fare qualcosa che ti piacerà per davvero fare, senza preoccuparti troppo del guadagno. Se così non dovesse essere, al contrario, finirai a pensare soltanto a quanti soldi hai bisogno di portare a casa. E sei fai le cose soltanto per soldi, non hai la libertà di esprimere te stesso. E finisce che sono i soldi a decidere per te.