L’invito è a fare uno sforzo. Per un’ora, un’ora e mezza, possiamo rinunciare ai tornei ATP e accendere Arryadia. Il canale marocchino è facile da ricevere in Italia (qui tutti i dettagli) e, alle 15 di oggi, trasmetterà la finale del torneo Challenger di Kenitra. Il campo il promettente tedesco Maximilian Marterer, reduce dal suo primo titolo (sette giorni fa a Meknes), e l’egiziano Mohamed Safwat. Per lui, 26 anni compiuti martedì scorso, non sarà una partita come le altre. Dopo le tante difficoltà dovute alla cittadinanza egiziana, giocherà la prima finale in un torneo Challenger. E’ il primo passo verso il coronamento di un sogno che prevederebbe l’ingresso tra i top-10.
Vabbè, una cosa alla volta.
Pensi al tennis in Egitto e c’è poco da raccontare. Il migliore di tutti, l’unico a varcare la fatidica soglia dei primi cento, è stato Ismail El Shafei, quartofinalista a Wimbledon nel 1974. Nella sua lunga carriera si è tolto la soddisfazione di battere Bjorn Borg. Poi è diventato un ottimo dirigente, prima a capo della federtennis egiziana e poi nelle varie commissioni ITF. Dopo di lui, il vuoto. Qualcuno ricorda Tamer El Sawy, discreto giocatore degli anni 90. Giusto vent’anni fa si qualificò agli Internazionali BNL d’Italia dopo aver svolto la trafila universitaria negli Stati Uniti. Ha vinto due tornei Challenger, entrambi al Bronx. Vent’anni dopo, Safwat può mettere fine all’eterno digiuno. Dovesse vincere, tuttavia, sa già che lo farebbe nell’indifferenza dei media egiziani. “Si occupano soltanto di politica e mai di sport. La nostra vita non può basarsi soltanto sulla rivoluzione, bisogna parlare anche di altro”. Vabbè: tra la Rivoluzione del 2011 e il Colpo di Stato di due anni dopo, sfociati nelle dimissioni di Mubarak e nella destituzione di Morsi, i media egiziani hanno ben altro di cui occuparsi. Anche perché il governo di Abdel Fattah al Sisi offre spesso spunti di cronaca. Ma questa è un’altra storia. Quella di Safwat racconta di un ragazzo onesto, imprigionato nel sistema della burocrazia. Per ogni viaggio all’estero, infatti, deve ricevere l’autorizzazione del Governo tramite un documento denominato “Travel Permit” (permesso di viaggio), necessario per tutti i giovani maschi che lasciano il paese. Funziona più o meno così: quando un giovane uomo deve viaggiare, c’è bisogno che qualcuno garantisca per lui e assicuri che tornerà in Egitto. Per gli atleti, il ruolo di garanzia spetta alle federazioni sportive e al Ministero dello Sport. “Se non andassi d’accordo con la federazione, per qualsiasi motivo, non potrei viaggiare” raccontava Safwat qualche anno fa, quando faceva incetta di titoli Futures a Sharm El Sheikh.
USCIRE DAL PAESE NON E’ FACILE
Ogni volta che Mohamed ha intenzione di lasciare il paese deve comunicarlo alla sua federazione con almeno 30 giorni d’anticipo. A quel punto si tiene una riunione che approva la richiesta. Dopodiché la pratica finisce al Comitato Olimpico Nazionale, infine al Ministero dello Sport. Quest’ultimo firma un decreto che però deve avere l’autorizzazione finale dei militari. Per un tennista, costretto a viaggiare quasi ogni settimana, è un bel problema. Tre anni fa, ad esempio, Safwat non poté recarsi a Johannesburg perché era andato “troppo” avanti a Sharm El Sheikh. Gli avevano concesso un Travel Permit per il 25 aprile, ma vinse il torneo in Egitto (battendo in finale un 17enne Gianluigi Quinzi) e sarebbe partito il 28. Ma non fu possibile per la rigidità delle disposizioni. “Credo che il Ministero debba facilitare il procedimento per tutti gli atleti – sospirava in un’intervista con Sport 360 – capita che a volte i militari non diano il permesso per viaggiare anche se hai il decreto ministeriale. Io credo che un atleta professionista debba avere il sostegno della sua nazione. Deve esserci un’eccezione, non è possibile che la mia programmazione debba cambiare per un ritardo di tre giorni”. Il Travel Permit è uno strumento che consente al governo di tenere sotto controllo ogni movimento, poiché indica con precisione date e destinazioni. E non c’è possibilità di modifiche. “E’ un documento che controlla la tua vita – diceva Safwat – credo che certe limitazioni siano la ragione per cui non abbiamo buoni giocatori”. Più in generale, il tennis gode di scarsa considerazione dalle istituzioni. Mentre i calciatori ricevono spesso riconoscimenti e premiazioni, i tennisti non hanno ottenuto niente. Eppure si sono aggiudicati diverse volte i Campionati Africani. “Ovviamente si aspettano la nostra presenza in ogni gara istituzionale e ci chiamano traditori se non lo facciamo, però così si crea un circolo vizioso”. Il circolo vizioso, naturalmente, è anche di natura economica. Per anni, Safwat è stato costretto a limitare i viaggi per ragioni finanziarie. E’ capitato che mettesse da parte un po’ di budget per girare 10 settimane (“Che però diventavano subito 7 se decidevo di viaggiare con il mio coach”), ma il conto corrente a scadenza gli metteva addosso una pressione incredibile. Anche in virtù di questo, ha creato una piccola fondazione che punta a dare una mano ai giovani tennisti egiziani, soprattutto quelli che provengono dalle zone rurali.
MENO MALE CHE C’E’ SHARM EL SHEIKH
A differenza di altri giovani egiziani, Safwat ha avuto la fortuna di trovare un piccolo sponsor. Aveva 14 anni quando ha firmato con Wadi Degla, compagnia di holding egiziana che possiede vari club sportivi. Non lo coprono d’oro, ma a sufficienza per consentirgli di essere ancora in giro a 26 anni. La sua storia racconta di un periodo in Spagna: è transitato a Barcellona, nell’Accademia di Sergi Bruguera, poi ad Alicante, in quella di Juan Carlos Ferrero. Ma non si è trovato ed è tornato in Egtto. Nel 2014 aveva fatto una sortita tra i top-200 ATP e si era concesso le qualificazioni in due prove del Grande Slam (Melbourne e Parigi), curiosamente perdendo sempre contro italiani (Alessandro Giannessi e Paolo Lorenzi), poi era tornato di nuovo nelle retrovie. Quest’anno ha risalito la china e si è presentato a Wimbledon, pardon, a Roehampton, per le qualificazioni dei Championships. E’ arrivato a tanto così dal main draw, battendo nientemeno che Nikoloz Basilashvili al secondo turno. “Non avevo mai giocato sull’erba in tutta la mia vita – raccontò – mi trovo bene, però devo trovare un modo per essere più stabile, perdo l’equilibrio in continuazione. Tristan Lamasine lo avrebbe punito al turno decisivo, ma quel risultato gli ha dato ancora più fiducia. A Kenitra non ha battuto esattamente fenomeni, ma ha centrato un risultato inedito. Con questa finale è certo di tornare tra i top-200 ATP e, in caso di vittoria, otterrebbe addirittura il best ranking (è stato n.187 nel marzo 2014). Fare il tennista in Egitto è difficile, ma per certi versi non è così male. Se diamo un’occhiata alla sua carriera, scopriamo che ha vinto 22 tornei Futures: di questi, ne ha intascati 18 a Soho Square, resort di Sharm El Sheikh (a 200 chillometri dal Monte Sinai, luogo caro ai lettori della Bibbia), meta-cult del circuito ITF, che ospita tornei praticamente per tutto l’anno (quest’anno l’Egitto ne organizzerà ben 36, soprattutto a Sharm ma anche al Cairo) . “Di questo bisogna ringraziare la nostra federazione, che si è impegnata molto, e gli organizzatori che garantiscono l’ospitalità ai tennisti egiziani. In questo modo ho potuto chiudere qualche stagione in attivo, altrimenti sarei chiaramente in perdita”. Detto che favorire in questo modo gli egiziani non è il massimo della correttezza verso gli altri, senza questo aiuto oggi non avremmo una favola da seguire: Mohammed Safwat in cerca del suo primo titolo Challenger. Nella speranza di dare un po’ di dignità al tennis nel suo paese. E nel sogno di avere più libertà nei viaggi.
Il permesso di viaggio di Mohamed Safwat
LA STORIA – Dopo tanti anni di carriera, il numero 1 di Egitto giocherà la sua prima finale in un torneo Challenger. A Kenitra sfida Maximilian Marterer e spera di mettersi alle spalle la burocrazia egiziana, tra divieti di viaggiare e scarsità di risorse. Sono trascorsi 20 anni dall’ultimo successo di un connazionale in un Challenger.