Paolo Vatta è istruttore Fit di secondo grado e consigliere Alit (Associazione Lombarda Insegnanti Tennis)
Paolo Vatta è istruttore Fit di secondo grado e consigliere Alit. A lui abbiamo chiesto un parere.
– Perché sei diventato maestro di tennis?

“Ho sempre amato il tennis, fin da piccolo. Quando ancora si riuscivano a vedere gli Internazionali d’ Italia sulla Rai e il Roland Garros su France 2… Il tennis non era un privilegio per telespettatori muniti di parabola e più o meno tutti i ragazzini conoscevano i nomi dei primi dieci giocatori del mondo. A nove anni cominciai a colpire qualche palla in modo del tutto casuale nel campo condominiale e l’ anno dopo i miei genitori mi iscrissero alla scuola tennis. Come tutti i bambini che dalla S.A.T. passano all’agonismo, sognavo di diventare un giocatore; in quegli anni Agassi era il Nadal dei ragazzi d’oggi e il suo tennis frenetico dava spesso lezioni di gioco alla perfezione tecnica di Sampras. Fin da allora, però, cresceva la passione per l’allenamento, per la tecnica, l’importanza della dedizione nel nostro sport. Così, dai sedici anni, i miei maestri mi diedero l’ opportunità di affiancarli saltuariamente nelle lezioni o durante i campus estivi. Iniziare a guadagnare i primi soldini grazie alla passione per il tennis era una grande soddisfazione, cosi, parallelamente all’attività agonistica, cominciai a fare il palleggiatore e a vent’ anni presi il primo brevetto federale: istruttore di primo grado”.

– Dove lavori?

“Lavoro presso la S.G.M. Forza e Coraggio, una polisportiva (la più antica di Milano, anno di fondazione 1870) dove trova spazio quasi ogni sport, dalla storica ginnastica artistica, al calcio, dalla pallavolo al basket e tanti altri. Sei anni fa la dirigenza ha voluto scommettere sul tennis che era praticamente scomparso come sezione della società sportiva. Così, sia io come responsabile della sezione tennis, sia la direzione sportiva, ci siamo rimboccati le maniche costituendo una S.A.T., strutturandola in corsi di baby tennis, mini tennis, midi tennis, scuola tennis, pre-agonistica, agonistica e corsi adulti. Il progresso dei numeri è stato graduale e oggi contiamo 150 iscritti ai corsi tra ragazzi e adulti”.

– Com’è la tua scuola tennis ideale?

“Dovrebbe essere divisa in tanti settori, ognuno praticamente indipendente dall’altro. La scuola e i corsi adulti dovrebbero riuscire nell’intento di fare uscire dal campo i propri allievi sudati e con il sorriso e metterli in grado, alla fine del corso, di battere l’amico nella partita della domenica. Il settore agonistico dovrebbe “sfornare” il maggior numero di giocatori ma soprattutto insinuare nelle abitudini dei ragazzi l’attitudine alla dedizione, all’ impegno, alla rinuncia; contribuire, quindi, a formare un futuro professionista. Ovviamente per fare questo c’è spesso bisogno di grandi strutture e anche di tanti soldi. Ma, in un’ottica più realistica e quotidiana delle piccole scuole tennis, dove i mezzi non sono illimitati, deve entrare in gioco la bravura, la sensibilità e la voglia del maestro che cerca di adattarsi alle esigenze del momento e alle diversità dei vari allievi: Quello sarebbe il maestro ideale!”.
Ma, in un’ottica più realistica e quotidiana delle piccole scuole tennis, dove i mezzi non sono illimitati, deve entrare in  gioco la bravura, la sensibilità e la voglia del maestro che cerca di adattarsi alle esigenze del momento e alle diversità dei vari allievi: il maestro ideale!”.

– L’insegnamento del tennis in Italia…

“Penso che nel nostro paese ci siano tanti maestri bravi, sia federali che non. Ovviamente, in mezzo a tanti buoni professionisti c’è anche una buona parte di improvvisati e venditori di fumo. Ma questo accade nel nostro settore, come in quello degli idraulici o dei commercialisti. Secondo me i veri problemi sono due: il primo è che non esiste una vera scuola di pensiero italiana sull’insegnamento; nei vari corsi di formazione e di aggiornamento che ho frequentato ho spesso sentito dire tutto e il contrario di tutto e prendere come modello di riferimento, a seconda dell’esigenza, talvolta la scuola francese, un’altra quella americana e un’altra ancora quella spagnola. Ho fatto fatica a intravedere la volontà di costituire una vera identità per la scuola italiana. Il secondo problema: quasi ogni maestro ha un metodo molto personale (che spesso rispecchia il suo modo di giocare) di insegnare a giocare a tennis. Quasi sempre con un po’ di presunzione cerca di difenderlo a tutti i costi senza accorgersi che il tennis è in continua evoluzione e nel mondo ci sono studiosi che si occupano di far crescere il livello di gioco del nostro sport. Penso che questo sia il più grosso peccato nel quale noi maestri possiamo cadere. Secondo me, invece, se si ha la coscienza pulita sul proprio operato, si deve essere anche pronti alla critica e alla collaborazione”.

– Cosa pensi del tennis italiano? Perché non nascono campioni?

“Penso che di campioni ne nascano nel nostro paese. Piuttosto si ha qualche difficoltà nel farli crescere. Sono cose dette e ridette ma il nostro problema è proprio la mentalità. Siamo un popolo di facili entusiasmi e tempestive condanne: se un nostro giovane talento realizza un buon risultato lo mettiamo in prima pagina come erede di Federer, se al contrario perde due volte di fila al primo turno lo diamo per finito e lo bolliamo come promessa non mantenuta. Questa, purtroppo, è una peculiarità del nostro essere italiani che non va d’accordo col tennis moderno che ha ritmi frenetici e pretende applicazione e volontà maniacale davanti ai successi come agli insuccessi.
Questo nostro modo di essere poteva forse andar bene per il tennis dei tempi di Panatta o Pietrangeli in cui il talento poteva sopperire a mancanze atletiche o di altra natura. È forse un po’ triste dirlo ma quando entriamo in campo dovremmo essere un po’ ‘meno italiani’. Non è un caso che i risultati più importanti dei nostri giocatori sono spesso ottenuti da ragazzi che si allenano in posti appartati lontano dalle città, dalle distrazioni e dai rumori italiani di cui dicevo prima: un esempio su tutti è il centro di Caldaro dove si allenano Seppi e altri giocatori. Oppure chi decide di andare all’estero dove, spesso, la mentalità è differente: Pennetta docet. Insomma noi italiani siamo bravi, un popolo pieno di inventiva e di talenti ma per essere forti nel nostro sport e non essere ricordati solo come promesse serve qualcos’altro”.