Una scelta umiliante (per chi l'ha compiuta), incapace di premiare il presente e, ancor più, il ricordo di una fuoriclasse. Anche se quel giorno a Parigi…La memoria è quello che siamo. I ricordi sono la nostra vita: proteggerli e tramandarli – tentando di condividerli – è un compito fondamentale di ogni consorzio umano, è un lavoro di costruzione, di difesa, di valorizzazione della comunità.
Per questo la Federtennis, che organizza gli Internazionali d’Italia, umilia se stessa e la propria non concedendo la possibilità a Francesca Schiavone di partecipare al torneo: ha preferito invitare altre tenniste, e fra queste Maria Sharapova, al rientro in questo maggio dopo la squalifica per doping. Ma non è sul lato moralista che pecca questa triste vicenda, anche se una nostra campionessa, Roberta Vinci, ha ricordato l’inopportunità di “premiare” con la wild card chi ha perduto la classifica idonea per aver truffato le regole del gioco.
È la memoria la nostra parola decisiva. Ed è il senso di umanità ad essere offeso, più della morale. Francesca Schiavone è stata la prima vincitrice italiana di un torneo dello Slam, a Parigi nel 2010 – raggiunta poi da Flavia Pennetta con lo Us Open del 2015, ma è l’unica con due finali da raccontare, avendo doppiato il traguardo l’anno successivo, se possibile giocando anche meglio, piegata solo dalle geometrie robuste di Na Li (e da una svista arbitrale).
È stata numero 4 del mondo, come fu Panatta fra gli uomini, nel mitico ’76, e come nessun altro fra i nostri atleti, né uomini né donne. Ma, per varie ragioni e non ultima il logorio, manca della classifica sufficiente e giocare al Foro. Però sta rimontando dopo una primavera struggente, con la vittoria di Bogotà e la finale di Rabat. Risultati che servono solo a svergognare una decisione della Federtennis che nasce come sbagliata, probabilmente vendicativa, sicuramente – s’è detto – umiliante soprattutto per chi l’ha compiuta. E che finisce per diventare grottesca, privando il tabellone femminile della giocatrice italiana con le più solide possibilità di fare strada. Alcuni giorni fa, sempre Roberta Vinci quasi rifiutava di crederci, e sperava “in un ripensamento, perché la Schiavone nel tennis è un monumento ed è ancor di più un peccato non invitarla per quello che sembra essere il suo ultimo torneo di Roma, di fronte al suo pubblico, un pubblico che l’ha sempre amata e che la porterà sempre nel cuore”.
Purtroppo le persone piccole sono le più tenaci nel difendere le proprie opinioni. L’ottusità che aveva governato la scelta non poteva certo risolversi in un pentimento, che presuppone comunque uno spessore umano. Ma dov’è questo spessore nelle parole del direttore tecnico, Sergio Palmieri, che davanti alle prime reazioni per questo torto “storico” ebbe a commentare: “Schiavone può sempre fare le pre-qualificazioni…”, come a sbeffeggiare l’allora classifica, che impediva a Francesca anche di accedere al tabellone delle qualificazioni vere e proprie. Dunque, la vincitrice di Roland Garros e tre Fed Cup, già n° 4 del mondo, avrebbe dovuto iscriversi a quel curioso casting che arrula anche i quarta categoria, cioè i giocatori da circolo.
Così, mossi da questo doloroso oltraggio alla memoria, e dunque a noi stessi che anche con le vittorie di Francesca abbiamo costruito l’immaginario di questo sport, ci siamo tuffati nella nostalgia, rivedendo tutto quanto era possibile ritrovare in rete fra i Roland Garros esaltati dalla nostra campionessa. Le sfide disperate, con partite recuperate dall’abisso (i quarti del 2011 con Pavlyuchenkova, partita intensa e bellissima), le lezioni di gioco a Wozniacki, Bartoli e in finale a Stosur, con l’australiana che impostò ogni scambio contro il rovescio italiano, un colpo che Francesca sa lavorare, contenere, variare, esplodere, come sull’ultimo punto. Le due partite alterne contro Na Li, il set contro la sfortunata Dementieva.Quelle immagini sono una sugosa dimostrazione del gioco pensato, concettuale, tecnico. Della supremazia del gesto sul muscolo. Sono un compendio di tattica, ma non esiste strategia per vincere un Roland Garros senza forza mentale e prodezza tecnica. Difettando di potenza pura, Francesca ha vinto – anche a Rabat, a Bogotà: guardate le immagini, conservatele – perché in campo ha scelto di fare più cose, e sapeva farle. In finale, nei momenti decisivi dei due set, s’avventava a rete in controtempo, per toccare e chiudere.
La sua varietà nei colpi le ha permesso di essere competitiva ovunque, l’ampiezza del gesto in entrambi i fondamentali (così utile a nascondere il lavoro su altezze e angolazioni) le ha proibito qualcosa sull’erba (ma un quarto di finale a Wimbledon c’è, nel 2009). La sua vittoria parigina – che segue le affermazioni in Fed Cup e le “trasporta” in ambito individuale – sono decisive per infondere mentalità anche alle colleghe che si eleveranno a tanto: Errani, Vinci, Pennetta.
Per questo la definiscono “monumento”, che in fondo arriva a noi dal latino monumentum, “ricordo”, da monère: ricordare. Lei, Francesca, ci ricorda le sue vittorie e anche quelle delle altre. Ci ammonisce poi – come il monumento foscoliano – dei compiti disattesi e da fare. Delle grandezze perdute e perse per scelta.
Eccolo, un ricordo: dopo aver forzato l’errore di Samantha Stosur, nell’ultimo punto del tie-break del secondo set in quella finale, Francesca cadde a terra, sconvolta di felicità. Di terra si impastò, forse la baciò perché arrivò anche a strofinare il viso, nel rosso di Francia. Salutò avversaria e arbitro e corse in tribuna a condividere quella felicità. In tanti si tuffarono ad abbracciarla. Fra questi, il più svelto fu Sergio Palmieri, che la stringeva ed esultava come fosse lui il vincitore. Fu una piccola cerimonia “italiana” sulle tribune, e fu grande in patria, con milioni di appassionati arrivati alla partita che aspettavano da oltre tre decenni. A questo serve condividere le vittorie. A questo serve la memoria.
Dimenticare è da piccoli uomini.
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