Oppresso dal regime comunista in Cecoslovacchia, Jaroslav Drobny cambiò cittadinanza più volte e divenne un’icona sportiva del secondo dopoguerra. Il “professore” rimane tutt'oggi il primo e unico giocatore nella storia del tennis africano, seppur d’egiziano avesse solo il passaporto, ad aver vinto Wimbledon.Occhiali neri da intellettuale, tanto massiccio da sembrare grosso, con un’innata classe nella smorzata e nel richiedere permessi di soggiorno. Jaroslav Drobny fu l’emblema dell’atleta naturalmente versatile, figlio di un’epoca, oramai lontana anni luce, capace di produrre un campione in due differenti discipline sportive. Ripreso a toni duri e scaricato più volte dalla Cecoslovacchia, sua terra natale, riuscì a prendersi la propria rivincita personale e a trovare la via del successo superati i 30 anni. Si rintanò ad Ovest, mendicò passaporti per almeno due lustri e scrisse la storia del tennis quando in pochi avrebbero scommesso un penny su di lui. Una favola d’altri tempi, tutta da raccontare e rivivere.

UN REGALO LUNGIMIRANTE
Nel giorno del suo settimo compleanno, il piccolo Jaroslav espresse il desiderio di poter ricevere in dono una racchetta. Il sig. Drobny, custode dell’International Lawn Tennis Club di Praga, lo accontentò solo in parte regalandogli un racchettone di legno adatto solamente al tennis da spiaggia. “Per adesso utilizza questa e impara a giocare – gli consigliò – quando avrai qualche soldino da parte ti potrai permettere la racchetta dei tuoi sogni”. Detto fatto. Jaroslav, consapevole della situazione economica familiare, si rimboccò le maniche e per un anno si prestò a fare il raccattapalle. Un modo intelligente per carpire i segreti dei più grandi, chiedere consigli e, al contempo, riempire giorno dopo giorno il proprio salvadanaio. Una volta raggiunta la cifra necessaria, avrebbe potuto acquistare una racchetta. Una racchetta vera, da tennis.
UN CAMPIONE A TUTTO TONDO
Jaroslav è un ragazzino timido ed introverso, con una predisposizione genetica per l’attività motoria. In età adolescenziale, veniva già considerato una delle più grandi promesse di tennis e hockey del suo paese. Non ebbe mai il coraggio, almeno inizialmente, di intraprendere una sola strada, ma fu il talento a prendere una decisione al suo posto. “Scegliere di non scegliere è pur sempre una scelta” sosteneva Søren Kierkegaard, filosofo danese del XIX secolo. Drobny perseguì le sue due passioni fino in fondo senza dar retta a nessuno. Una decisione che, per quanto rischiosa, a posteriori si rivelò vincente. Il praghese, infatti, fa parte di quella ristrettissima cerchia di atleti ad aver praticato e vinto in almeno due discipline sportive. Partecipò a 38 tornei del Grande Slam ottenendo tre titoli grazie ai successi al Roland Garros nel ’51 e nel ’52 e a Wimbledon nel 54’ (soltanto 17 giocatori hanno vinto sia a Parigi che a Londra), e conquistò, rivestendo il ruolo di centravanti della Cecoslovacchia, una medaglia d’argento ai Giochi olimpici di Saint Moritz del 1948 con la squadra di hockey.

I MOTIVI DELL’ESILIO
A distanza di un solo anno dal secondo posto olimpico sul ghiaccio, Jaroslav Drobny, così come Ferenc Puskás nel calcio o Bobby Fischer negli scacchi, abbandonò la propria terra natia in contrasto con i regimi del tempo. Idolatrato quando vinceva e bacchettato duramente in caso di sconfitta, il “professore”, così soprannominato per via del suo carattere austero e pacato, si ritrovò costretto ad esiliare e a fare i bagagli armato di racchetta e buoni propositi. Correva il 1949 quando Jaroslav, in un’Europa ancora intenta a leccarsi le ferite del secondo dopoguerra, decise di opporsi all’ennesimo ordine impostogli del regime comunista dell’epoca. Il motivo? Si sarebbe dovuto ritirare dal torneo di Gstaad, in Svizzera. La sconfitta subita in finale a Wimbledon per mano di Ted Schroeder, terza finale Slam perduta dopo le debacle giunte al Roland Garros nel ’46 e nel ’48, rappresentavano un’onta troppo grande per il paese. “Mi sono chiesto molte volte se quella fosse la scelta giusta. A Praga avevo la mia famiglia, una casa, una macchina. Ero l’atleta più forte della nazione – spiega nella sua autobiografia Drobny – prendevo un ottimo stipendio per non fare praticamente nulla. Sapevo che, finché avessi vinto, avrei potuto vivere da re. Ma appena avessi cominciato a perdere, sarei diventato inutile e si sarebbero ripresi tutto quello che mi avevano dato. E non volevo correre questo rischio”. Estremamente spettacolare e bello da vedere, l’inizio di carriera di Drobny fu contrassegnato dalla nikefobia, più comunemente conosciuta come paura di vincere. Il praghese si portò dietro ancora per un po’ di tempo la pesante etichetta di eterno secondo fino a quando Faiza, sorella del Re Faruk, gli concesse il passaporto egiziano.IL PRIMO E ULTIMO “AFRICANO” AI CHAMPIONSHIPS
Liberatosi della pesante pressione della Cecoslovacchia, Drobny iniziò a scrollarsi da dosso le sue fragilità. Sotto la bandiera egiziana, ottenne il primo titolo agli Internazionali d’Italia nel 1950 (ne avrebbe intascati altri due), mentre al Roland Garros, dopo un altro passo falso in finale contro Budge Patty poche settimane più tardi, spezzò la maledizione nel 1951 per poi bissare il successo l’anno dopo. Nel frattempo, ai Championships, nel corso di quella medesima stagione che lo vide conquistare il secondo titolo a Parigi, era giunta un’altra sconfitta. Questa volta il giustiziere di Drobny fu Frank Sedgman che, per ironia della sorte, aveva battuto al Roland Garros nello stesso anno. L’animo del “professore” appariva meno tormentato, da due anni nella sua vita c’era Rita Anderson, giocatrice inglese con cui convolò a nozze in poco tempo e si trasferì nel Sussex. Nel 1953, al terzo turno, Jaroslav affrontò per l’ennesima volta Budge Patty. L'americano era forte al servizio, aggressivo da fondocampo e abile nel gioco d’attacco. Fu un match storico, durato 4 ore e 15 minuti, in cui Drobny annullò sette match point e chiese più volte al giudice di sedia di interrompere il match per oscurità. Giunti alle dieci di sera, Drobny, nonostante i crampi, ebbe la meglio su Patty trovando addirittura la forza di sorridere alla stretta di mano conclusiva. Un match rocambolesco, terminato 8-6 16-18 3-6 8-6 12-10, talmente faticoso da impedirgli di essere competitivo fino in fondo. Vinse altre due partite, ma si incagliò in semifinale contro Kurt Nielsen, nonno di quel Frederik che 59 anni dopo avrebbe clamorosamente vinto il doppio maschile, proprio a Wimbledon. Chi l’avrebbe mai immaginato che sarebbe bastato un solo anno per vederlo finalmente trionfare ai Championships? Accreditato dell’undicesima testa di serie, Drobny si presentò all’All England Lawn Tennis and Croquet Club più furioso che mai. Decise di non iscriversi al doppio e di allenarsi in religioso silenzio. L’ira del cecoslovacco, egiziano di passaporto, aveva una sola valida motivazione: uno degli organizzatori aveva ironizzato, in maniera poco galante, sulla sua amata Rita. Alla ricerca di calma e concentrazione, a seguito di ogni vittoria nel corso del torneo, lo si vedeva ogni tanto pescare nei pressi del laghetto vicino la casa della moglie. Il cammino del 33enne Drobny fu strepitoso: fece a fettine Lew Hoad, si ripeté contro Budge Patty sino a issarsi nuovamente, per la terza volta, in finale a Wimbledon. All’atto conclusivo, dall’altra parte della rete, si trovò un ragazzo 20 enne di nome Ken Rosewall. Il tifo, sin dalle prime battute, era tutto dalla parte di Drobny. Il praghese, cittadino britannico poi dal 1959, era oramai considerato uno di casa. Caposcuola di uno schema ormai démodé nel tennis contemporaneo, ovvero la smorzata di rovescio seguita a rete, vinse l’agognato titolo in quattro set tra l’euforia e il clamore del pubblico. Jaroslav Drobny è il primo, ed è tutt'oggi anche l’unico tennista africano ad aver vinto Wimbledon. L’australiano, dal canto suo, peccò di gioventù non sfruttando appieno le lacune del suo avversario dal lato destro del campo. Da quella prima finale in carriera ai Championships, Rosewall ne giocò altre tre senza mai riuscire a sfatare il tabù sui prati londinesi. La maledizione era stata tramandata, ma questa volta il finale sarà diverso.