Nel 1982, l'Italia ospitava ben otto tornei ATP. Ora sono rimasti solo gli Internazionali d'Italia a Roma. Eppure, dati alla mano, organizzare tornei aiuta tutto il movimento, compreso lo sbocciare di nuovi talenti, come insegnano Francia e Stati Uniti. Ma l'Italia tornerà mai a organizzare altri tornei del circuito maschile?Le finali odierne, quella tutta francese tra Jo-Wilfried Tsonga e Pierre-Hugues Herbert a Montpellier (Francia) e quella tra Guido Pella e Juan Ignacio Londero a Cordoba (Argentina), fa tornare d’attualità uno studio (e relative considerazioni) condotto da Marco Bucciantini su quanto sia importante poter giocare tornei nella propria nazione. Ci sono giocatori che ci hanno costruito sopra una buona parte della loro classifica e della loro carriera. In Italia ci stiamo riuscendo a livello più basso, organizzando tanti Challenger. Ma sarebbe importante tornare ad affiancare agli Internazionali d’Italia altri eventi ATP. Tre anni fa, mi parlarono proprio dell’idea di portare in Italia un grande evento. Pare ci fosse indecisione tra un torneo ATP e un evento under 21. Sappiamo com’è finita (Lorenzo Cazzaniga).
Febbraio è il mese del Carnevale, della marmotta, del Festival di Sanremo, del Super Bowl e di San Valentino. Gli sciatori vanno in montagna e i tennisti si dividono: vanno in Francia (si gioca a Montpellier e Marsiglia), negli Stati Uniti (a New York e Delray Beach) o in Sud America (i terraioli, soprattutto). Infatti è il mese dei francesi e degli americani: a febbraio fanno le formiche, mettono da parte i punti per tutto l’anno, costruiscono le loro classifiche. Non sembri riduttivo per certe carriere ma è quello che si chiama fattore campo: è importante in qualsiasi sport, anche se è più immediato e suggestivo da quantificare negli sport collettivi, dove le tifoserie si fronteggiano come succede alle squadre. Ma è decisivo anche nello sport individuale. Gli analisti (non mancano dati della Harvard University, che ha fatto studi su tutto) hanno indagato su quali fattori specifici creassero quel vantaggio netto e più ampio chiamato – appunto – fattore campo. Nel calcio, dove le vittorie casalinghe sono in media fra il 50% e il 100% superiori a quelle in trasferta (a seconda delle categorie e delle nazionalità), si considerano decisivi il numero dei tifosi (inciderebbero per un rateo di 0,1 gol a partita ogni 10.000 convenuti…), l’abitudine, il minor stress verso chi affronta il viaggio e il pernottamento lontano da casa, l’accondiscendenza dei giudici-arbitri, circostanza questa studiata nel basket dove la percentuale d’incidenza del fattore campo cala, ma resta in attivo: il dato più curioso, verificato nella NBA, vede gli arbitri fischiare in media 1,3 falli a partita in più contro i cestisti in trasferta: poco, certo, ma non superfluo.
Ma qui conta il tennis. L’ennesimo derby francese nella finale di Montpellier – con Lucas Pouille (uno a cui il destino s’incastra sempre benissimo) che sconfigge Richard Gasquet – ci ha invogliato a controllare le statistiche. La Francia e gli Stati Uniti sono i due Paesi che organizzano il maggior numero di tornei del circuito (considerando le prove del Grand Slam e i tornei ATP 1000, ATP 500 e ATP 250, in ordine di montepremi): sono 11 oltreoceano, 7 oltralpe. In America il circuito si sposta per intero a marzo (Indian Wells e Miami) e dopo Wimbledon fino al termine dello US Open. In Francia torna d’autunno, per i tornei indoor, dopo la parentesi di Roland Garros, anticipata dall'ATP 250 di Lione. Questo dato non inverte le carriere, non riveste di talento un atleta che ne è sprovvisto ma è innegabile l’aiuto. Senza essere insolenti, basta controllare il palmarès dei maggiori tennisti di queste due nazionalità. Tra i francesi, il più vittorioso del nuovo millennio (per tornei conquistati) è Jo-Wilfried Tsonga: dei suoi 16 trionfi, 8 sono avvenuti in territorio amico (il Mille di Parigi Bercy, 3 volte a Metz, 3 a Marsiglia, una a Lione): il 50% delle vittorie, un dato robusto. Cinque volte ha vinto in Francia Richard Gasquet (3 volte Montpellier – con anche due finali perse, una volta Nizza e Lione); quasi la metà dei successi anche per Monfils (2 a Montpellier e una a Metz su 7 vittorie totali. È stato finalista in Francia altre 6 volte, comprese le uniche 3 finali in un Mille, sempre a Parigi); Gilles Simon spreme invece dal suolo patrio 5 successi su 13 totali (2 volte a Metz, 3 a Marsiglia); Lucas Pouille ha in bacheca i trofei di Montpellier e Metz (e altri 3 conquistati nel mondo) mentre Benoit Paire – il meno inquadrabile dei francesi – è stato finalista solo 2 volte (a Montpellier e Metz) mentre ha ottenuto in Svezia (a Bastad) il suo unico successo.Questa grandinata di numeri e le ripetizioni delle stesse città fa confusamente capire come spesso questi tornei diventino delle competizioni nazionali, con finali monocolore. A questi tornei la partecipazione degli atleti di casa è numericamente superiore, garantita dalle wild card, i posti a invito, già dispensate anche nelle qualificazioni (che poi si riverberano sul tabellone principale). Quanto siano importanti per cominciare una carriera pro (e quanto talvolta possano diventare anche un limite alla crescita del tennista) lo dimostrano i due invitati al torneo più importante vinto da un francese in terra straniera, la Rogers Cup a Toronto del 2014, quando Tsonga sconfisse in finale Roger Federer. Fra gli americani, in tabellone c’era un ragazzino dai colpi violenti e disordinati, Jack Sock, e un’eterna promessa mai divenuta un fuoriclasse, un geometra pasticcione del tennis, quel Donald Young capace di dominare il tennis degli adolescenti, ma – ahilui – rimasto a quelle velocità e a quelle illusorie impressioni.
Young è stato numero uno fra gli junior a un’età da scuola media: 15 anni. Di lui si disse tanto, troppo. Per affrettarne la crescita, gli furono destinate 34 wild card nei primi anni di professionismo; al principio per curiosità, alla fine per necessità, in quanto poche volte la classifica era adeguata all’iscrizione. Questi inviti non erano però un’assicurazione sulla buona riuscita: 25 eliminazioni al primo turno, una carriera frustrante, avviata alla delusione dalla scelta di fargli giocare i Masters 1000 a 17 anni. Ma se alla fine ha trovato un posto nel tennis dei grandi, lo deve soprattutto a questa possibilità di giocare molti tornei senza meriti di classifica. Altre 42 wild card se le sono spartite nei loro anni di formazione Jack Sock e Ryan Harrison, entrambi con un saldo vittorie/sconfitte imbarazzante, ma quell’esperienza è servita per diventare competitivi. Nella preziosa classifica di Sock (entrato a fine 2017 nei top ten) dopo il successo a Bercy di novembre, i cinque maggiori risultati sono arrivati sul suolo americano (Delray Beach, Houston, Washington, Indian Wells e Miami). E Harrison ha vinto a Memphis nel 2017 il suo unico torneo.
I due atleti più continui al vertice sono stati John Isner e Sam Querrey: per loro, l’incidenza dei tornei casalinghi è decisiva. Isner ha vinto 10 dei suoi 12 tornei negli Stati fra Winston Salem, Newport e Atlanta. Querrey è al 60% delle vittorie (su 10 tornei conquistati, ha vinto 3 volte a Los Angeles, una a Las Vegas, Memphis e Delray Beach), e la percentuale sale nelle finali, 6 su 8. Gli statunitensi sono ancora più specialisti, forse viziati, dei colleghi francesi. Sicuramente meno competitivi al cambiare degli usi, dei costumi, dei fusi orari e dell’alimentazione. Tutte concorrenze che fanno del fattore campo tennistico qualcosa di diverso (a volte superiore) anche rispetto agli sport di squadra. Sicuramente una variante sottovalutata.
Un altro esempio è quello di Philipp Kohlschreiber, tennista dal talento limpido, dai colpi fluidi e dal gioco piacevole, capace di buonissime esibizioni su tutte le superfici e con eroiche sconfitte contro i migliori. Ha svernato in posizioni di classifica lusinghiere ma sempre apparse al di sotto delle sue possibilità. Ecco, anche questo talento per certi versi sprecato, preferisce che intorno a lui si parli tedesco: 8 successi, 5 in patria (a Halle, Dusseldorf e tre volte a Monaco) e altre 2 vittorie a Kitzbuhel, in terra austriaca. In pratica, solo la vittoria di Auckland del 2008 fu in terra straniera. Anche 6 finali su 9 sono arrivate dove si parla tedesco, in due stati che organizzano ben sei eventi del circuito maggiore.Tutto questo spulciare le carriere altrui, nella speranza di non essere fraintesi e nulla togliere ai meriti, era solo una premessa per arrivare all’Italia. Un tempo patria dei tornei, è arrivata a ospitarne otto nel 1982 (Genova, Milano, Firenze, Roma, Venezia, Palermo, Napoli e Ancona) e in quelle settimane salutava vittorie nuove, crescevano speranze talvolta disilluse, radunava appassionati sugli spalti, occupava spazi televisivi. In breve, cresceva la passione popolare per il tennis, stimolava praticanti e professionisti. Ancora più in breve, faceva movimento. C’era a Roma (e c’è ancora) il torneo grosso, troppo enfaticamente raccontato come quinto Slam ma comunque sempre di ottimo livello e immensa suggestione. Milano aveva il suo appuntamento indoor, le altre città si erano conquistate un posto nel circuito dei tornei su terra battuta (un tempo assai più sviluppato,). L’uniformità delle superfici verso il cemento è successiva alla scomparsa dei tornei dal nostro territorio, anche se poi giocoforza ha inciso nell’incapacità di riconquistare le date. Dopo il record del 1982, L'Italia ospitava ancora sette tornei nel 1993 e già allora il mazziere era l’ATP, che ha cambiato regole e luoghi. Requisendo le date e rivendendole (Firenze fu sacrificata per la tappa portoghese di Estoril) o semplicemente liberandole, come successo per il torneo di Palermo, l’ultimo a scomparire nel 2006 (in Sicilia tornerà l'anno prossimo l'appuntamento femminile). Eppure, per i nostri tennisti questi tornei erano terreno di lotta e di conquista, con vittorie spesso rimaste uniche nelle loro carriere, per questo forse non così significative del loro valore ma ancor più appaganti.
Francesco Cancellotti arrivò a numero 21 del mondo dopo aver vinto gli Internazionali di Sicilia del 1984 dominando in finale Miloslav Mecir (gli lasciò tre game) e dopo la vittoria di Firenze sull’americano Jimmy Brown. Resteranno gli unici tornei vinti in una carriera importante, forse breve: intorno, prima e dopo, cinque finali perse, tre in Italia: a Firenze contro Jimmy Arias, a Saint Vincent contro Pedro Rebolledo e a Bari contro Claudio Pistolesi, in un match molto intenso ed equilibrato, in quello che resterà l’unico torneo vinto nel circuito maggiore per il romano. Anche per Pistolesi, dunque, il fattore campo fu decisivo nel guadagnarsi la miglior classifica (numero 71, proprio nell’anno di Bari, il 1987). E molte dei 105 match vinti nel circuito da Claudio Panatta furono ottenute nei tornei di casa. Anche per lui fu Bari la città dell’unica gioia piena (nel 1985, in finale su Lawson Duncan) e due delle tre finali perse si consumarono in penisola, a Bologna (1985, battuto da Thierry Tulasne – l’anno dopo fu il biondo argentino Martin Jaite a togliere il titolo a Paolo Canè, che vincerà nella sua città nel 1991, in finale su Gunnarson) e a Firenze, il 22 maggio del 1988: lo sconfisse un tennista marchigiano, di Ascoli Piceno, nel suo anno di grazia: Massimiliano Narducci, che quell’anno fu anche campione d’Italia, e a gennaio raccolse l’ottima annata convincendo il CT Adriano Panatta a una delle più discusse scelte della sua avventura alla guida della Davis azzurra: lui (e il giovanissimo Camporese) furono schierati in Svezia da titolari al posto di Canè e Nargiso. Camporese fece conoscere il suo dritto, Narducci la sua tigna, portando al quinto set gli avversari Svensson e Pernfors, entrambi intorno al numero 20 del mondo e finalisti Slam.
Roma, Milano, Bari (che poi divenne Genova), Bologna, Firenze, Palermo, Saint Vincent, poi una parentesi veloce di superficie (e di fatto) a Bolzano e Merano. Adesso restano solo gli Internazionali e una quantità di Challenger che pure l’ATP reputa sproporzionata, ma che avranno in ottobre a Firenze un ritorno atteso nel capoluogo toscano. Organizzare un torneo costa molto, il ritorno non è garantito perché solo i big assicurano il pienone e gli sponsor, ma per ingaggiarli non basta certo il prize money: bisogna spendere a babbo morto. Scrisse Riccardo Bisti, in un’inchiesta dove parlarono organizzatori e manager del settore: «Negli anni 80-90 era piuttosto facile, la data veniva regalata o comunque pagata cifre quasi irrisorie. Sul finire degli anni 90 invece, si è arrivati al punto in cui le date a disposizione erano decisamente meno e c’era sempre più richiesta organizzativa, soprattutto da paesi emergenti come gli Emirati Arabi, oppure da quelli asiatici e sudamericani. Allora i tornei hanno assunto un valore sempre più importante che i proprietari hanno cercato di monetizzare. Date di tornei ottenute gratuitamente sono state rivendute per un miliardo di vecchie lire. Per tanti è stata una bella plusvalenza». Se uscire dal mercato fu conveniente, rientrarci è un azzardo: se un tempo il montepremi era di 50 mila dollari, adesso l’ATP basic, quello da 250 punti, divide premi per 400 mila dollari. Diventa decisiva la collocazione in calendario (per invogliare i campioni e il pubblico), ma una buona settimana costa comunque un milione di euro circa. Poi bisogna aggiungere il montepremi e i costi organizzativi: e allora il prezzo supera i due milioni. Se l’entry list – i tennisti che si iscrivono e ne hanno diritto – non è di livello, fino alle semifinali capita di vedere le tribune mezze vuote. Quindi serve un altro milione per ingaggiare due, tre top players e senza chiaramente scomodare Federer e Nadal, Djokovic e Murray.
Difficile, possibile, coraggioso. Così molte città preferiscono la dimensione di un torneo Challenger, magari anche di alto livello, ma con costi più contenuti che fanno perfino sperare nel guadagno, soprattutto se gli italiani si fanno valere. Un Challenger costa mediamente sui 150 mila euro (tranne i casi dei tornei più ricchi che offrono già solo di montepremi oltre 100.000 euro), aiuta (ancor più di un torneo ATP) i tennisti di casa ad avviarsi al professionismo ma non è altrettanto probante e rischia di blindare queste giovani promesse in un’eterna dimensione. Non è un caso che recentemente (da Lorenzi a Estrella) si siano visti tennisti uscire dal guscio dei challenger solo dopo i 30 anni, un po’ cullati da quelle vittorie, un po’ capaci di costruirsi dentro quei tornei e di avere il coraggio poi di tentare il salto, quando un tempo si cominciava a fare i maestri.
Per tornare al discorso iniziale, anche se di livello minore, il torneo di casa serve: Lorenzo Sonego è a Ortisei che trova la palla, scampa il pericolo al primo turno, vince, si fa la classifica per le qualificazioni dell’Australian Open e – al dunque – comincia la sua vita da tennista. Anche Matteo Berrettini e Stefano Travaglia sono cresciuti nei challenger italiani (e non solo) mentre Fabbiano se li è cercati per il mondo, preferendo la superficie veloce. Ma per loro quelle possibilità che hanno avuto Pistolesi e Panattino, Cancellotti e Narducci non esistono e se prendere l’aereo è un modo sicuro di crescere e professionalizzarsi, avere una dote di tornei da giocare e di wild card anche da sprecare, avrebbe potuto aiutare a mettere insieme i primi guadagni da investire in coach e viaggi, le prime esperienze, i primi contatti. I primi punti, sui quali trovare convinzioni e sprono per il lavoro, in un mestiere dove la forza mentale, la sicurezza, la prospettiva di arrivare (e credere di poterlo fare) fanno la differenza e ne selezionano molti nei primi anni di professionismo.
Così, quelle sorti magnifiche e progressive che la FIT reclamizza («Non scema d’intensità il boom del tennis in Italia», vergava solenne un comunicato di qualche tempo fa), dato dal numero di tesserati (372.964) e di praticanti (secondo sport del Paese dopo il calcio) meritano (meriterebbero) di realizzarsi e sfogare in appuntamenti che avrebbero molti significati: di una ritrovata classe dirigente, capace di organizzare politicamente e praticamente un torneo, di una forza territoriale e imprenditoriale in grado di sostenerlo economicamente, di un gruppo di giovani tennisti che potrebbero giocarli, e vincerli, e stimolare qualcuno dei più giovani fra quei 372.964 tesserati a pensare un giorno di poter fare altrettanto.
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