Sarebbe bastato un solo punto, una sola volèe sbagliata, e Stan Wawrinka avrebbe detto addio allo Us Open al terzo turno. Ma i se appartengono ai perdenti, mentre “Stan The Man” è un vincente fatto e finito. Quella volèe contro Daniel Evans l’ha messa in campo, e otto giorni più tardi ha dipinto il terzo capolavoro Slam della sua carriera, superando Novak Djokovic per 6-7 6-4 7-5 6-3. Manco a dirlo, il filo conduttore delle sue imprese è proprio il numero uno del mondo: contro “Nole” ha capito che negli Slam poteva esserci spazio anche per lui, dopo due sconfitte in cinque set fra 2012 e 2013, e la consapevolezza è diventata realtà una, due, tre volte, sempre col serbo nell’elenco delle vittime. Prima a Melbourne, poi a Parigi, quindi a New York: tre finali Slam e altrettante vittorie, da vero “big match player”, come l’hanno definito alla vigilia. E per di più sempre battendo il giocatore al numero uno del mondo: ci ha perso 19 volte su 22, ma ha vinto le tre che contano di più. Nel 2014 in Australia era Nadal, poi è stato per due volte Djokovic, annientato esattamente allo stesso modo, con l’artiglieria pesante, una palla che viaggia come un tuono e degli ingranaggi programmati al contrario rispetto a tutti gli esseri umani. Gli altri perdono velocità con la tensione, mentre quando la posta in palio cresce lui accelera, dimentica le incertezze che (sin qui) l’han tenuto ancora lontano dalla vetta e tira fuori il carattere forte, fino a diventare imprendibile per chiunque. Ormai è sempre più chiaro: se “Rafa” era la kriptonite di Federer, e Djokovic di Nadal, “Stanimal” è quella del serbo, che avrebbe dato metà prize money pur di non trovarselo di nuovo di fronte in finale. Sapeva di averne di meno, sapeva che il tempo impiegato da Wawrinka per arrivare in finale (il doppio del suo, minuto più minuto meno) non sarebbe stato un fattore, e le sue paure si sono rivelate tutte fondate. E così Wawrinka è diventato il quinto giocatore ad aver vinto almeno due Slam dopo il 30esimo compleanno, insieme a quattro leggende come Rosewall, Laver, Connors e Agassi, e si è confermato come il più concreto nei Major dopo Djokovic. Degli ultimi 12 il serbo ne ha vinti sei, Nadal, Cilic e Murray uno, lui tre. Non potrà inserirsi nella battaglia per il numero uno, non potrà arrivare in doppia cifra, ma nei quattro grandi appuntamenti va sempre tenuto in considerazione.
DJOKOVIC PARTE MEGLIO, POI STAN SALE IN CATTEDRA
Ci sono due dati che ben riassumono le 3 ore e 54 minuti della finale. Il primo: a fine match Wawrinka ha vinto solo un punto più di Djokovic, 144 contro 143. Il secondo: il serbo ha avuto palle-break in nove game di risposta, strappando la battuta a Stan solo tre volte. Lo svizzero, invece, è arrivato sette volte a palla-break, ma solo in un’occasione non ha vinto il game. Significa che quasi tutti i punti importanti li ha portati a casa lui, andando a battere Novak nel suo terreno, quella della consistenza, della capacità di far pesare anche il nome. Gli è servito per arrivare in finale, ma contro questo Wawrinka ci vuole molto altro, troppo per il Djokovic degli ultimi due mesi. E l’averci già perso una finale Slam (peraltro attesissima) non l’ha certo aiutato. Il numero uno ATP è riuscito giusto ad andare avanti di un set, peraltro dovendo ricorrere al tie-break nonostante un vantaggio di 5-2 (e due set-point), poi Wawrinka ha iniziato a calcare la mano. È scappato sul 4-1, si è fatto riprendere sul 4-4, ma poi ha alzato il livello, ha iniziato a dare dei piccoli strappi col turborovescio, e Djokovic non ha retto. Di tennis, fisico e testa. Stan difendeva bene e attaccava ancora meglio, con due game di fila si è preso il set, con altri tre ha allungato sul 3-0 al terzo, vincendo tutti i giochi terminati ai vantaggi. Djokovic lottava, si costruiva delle chance, ma finiva per ridere nervosamente e prendersela con righe e nastri, quasi volesse giustificare a sé stesso come mai il match gli stesse scappando via. Semplicemente c’era troppo Wawrinka, malgrado qualche up and down. Come una distrazione talmente grave da riaprire il terzo set: da 3-0 a 3-3, poi avanti fino al 5-5, anche se la sensazione era fin troppo chiara già da un pezzo. Era Wawrinka a fare il match, ne aveva di più, meritava di più, e ha raccolto tutto insieme, proprio come in precedenza. Di nuovo una striscia di cinque game di fila, per vincere il set e volare 3-0 nel successivo, e stavolta Djokovic non è più rientrato, anche a causa di alcune fastidiose vesciche ai piedi. Ha chiesto un paio di volte l’intervento del fisioterapista, e Wawrinka non l’ha presa benissimo (tanto che lo stesso “Nole” si è scusato), anche se il problema era reale. Stan temeva che gli spezzasse il ritmo, tanto che al rientro in campo il break non è stato così lontano, ma l’elvetico si è difeso alla grande da tre palle del 2-3, è salito 4-1 e poi ha dovuto solamente tenersi alla larga dai problemi. Un attacco di fretta l’ha costretto allo 0-30 nell’ultimo game, e un ottimo diritto di Djokovic gli ha negato la gioia sul primo match-point. Ma ha dovuto attendere solo altri due punti.
“IL SEGRETO? NON LO SO”
Quando Djokovic ha spedito lungo l’ultimo rovescio, Stan ha esultato alla Wawrinka, in maniera molto composta, come già ad Australian Open e Roland Garros. Non ha nemmeno puntato l’indice alla tempia, il marchio di fabbrica del suo torneo, ma si è limitato ad allargare le braccia e dopo la stretta di mano ha chiesto se potesse salire nel suo box, ad abbracciare coach Magnus Norman (due volte!), la fidanzata Donna Vekic, staff e famigliari. Ma sempre senza lasciar trapelare particolari emozioni. Si è sciolto in un sorriso solo quando lo speaker l’ha annunciato come “The Champion”, e al microfono ha avuto belle parole per tutti. Per Djokovic, per il suo team (“grazie perché mi accettate come sono, e mi avete reso una persona migliore), e per New York e gli Stati Uniti, ricordando le vittime del terribile attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, 15 anni fa, come da data stampata sul DecoTurf dell’Arthur Ashe durante la finale. Lo speaker gli ha chiesto come riesca a tirare fuori il meglio nelle occasioni più importanti, ma Stan non si è sbottonato. “Non lo so”, ha risposto d’istinto. “Mi alleno duramente e cerco sempre di dare tutto”. Cose banali: evidentemente il vero segreto vuole tenerselo per se. E allora torna in mente il mantra che si è tatuato sul braccio sinistro: “Ever tried. Ever failed. No Matter. Try again. Fail again. Fail better”. Hai sempre provato. Hai sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio. Sembra che Samuel Beckett l’abbia scritto apposta per lui: ha perso 9 delle prime 13 finali in carriera, e dicevano fosse troppo emotivo per rendere al meglio quando la palla scotta. Poteva accontentarsi, tanto con Federer in casa sarà sempre il secondo, invece ci ha creduto lo stesso, ogni giorno un po’ di più. Ha ammirato i Fab Four, ha cercato di osservarli, di allenarsi col loro il più possibile, e il suo momento è arrivato. Per uscire dall’ombra doveva fare il botto, allora ha vinto l’Australian Open e quel successo gli ha cambiato la carriera. Da allora di finali non ne ha persa più nemmeno una: siamo a 11 su 11, and counting. Il “troppo emotivo” è diventato imbattibile.
US OPEN 2016 – Finale maschile
Stan Wawrinka (SUI) b. Novak Djokovic (SRB) 6-7 6-4 7-5 6-3
Il cacciatore di Slam
Un magnifico Stan Wawrinka fa tris di Slam, ribadendo la sua capacità di tirare fuori il massimo quando la posta in palio è altissima. La vittima è di nuovo Novak Djokovic: il serbo parte meglio, ma ne ha di meno e deve arrendersi alla distanza. I numeri Slam di Wawrinka sono impressionanti: tre finali e altrettante vittorie, sempre battendo il n.1. Proprio lui che da ragazzo sembrava troppo emotivo per gestire certe situazioni…