L’INTERVISTA – Kyle Edmund ha solo 20 anni, sei settimane da top 100 sulla carta d’identità e zero presenze in nazionale, ma capitan Leon Smith ha deciso che i sogni britannici passeranno anche dalle corde della sua Wilson. Abituate a sporcarsi di terra battuta.Kyle Edmund c’è sempre stato. C’era nel 2013 contro la Russia, c’era lo scorso anno a Napoli con l’Italia, c’era a marzo contro gli Stati Uniti, a luglio con la Francia e a settembre con Australia. Ma non era mai stato inserito nemmeno in formazione. Capitan Leon Smith gli aveva sempre preferito James Ward, più grande, più esperto, più abituato a certe emozioni, e pure più avanti nel ranking. Ma da qualche mese c’è stato il sorpasso, e la scarsa attitudine di 'Wardy' alla terra battuta ha fatto il resto: è giunta l’ora dell’esordio di Edmund, che come i privilegiati partirà direttamente dalla finale. Come un ragazzino che salta tutta la trafila della primavera e finisce dritto dritto in prima squadra, e magari la prima erba la saggia in Champions League. Ma qui non ci sono dieci compagni in campo con lui, e in palio c'è di più, c’è la storia, c'è quell'Insalatiera che al suo Paese manca dal 1936, quando le immagini erano in bianco e nero, e Fred Perry non era ancora un marchio d’abbigliamento. Edmund sarà il quarto ventenne a giocare una finale di Davis negli ultimi 15 anni, dopo Hewitt (2001), Nadal (2005) e Del Potro (2008); e il primo a debuttarvi dal 2003, quando il capitano spagnolo Jordi Arrese scelse Feliciano Lopez per il doppio con l'Australia. Ma era doppio, e da giocare sull’1-1. Stavolta invece è singolare, contro il numero uno belga (e 16 del mondo) David Goffin, ad aprire una delle finali più strane della storia. Lo era per il nome delle contendenti, e lo è diventata ancor di più per la situazione del paese ospitante, sull'attenti per l’allerta terrorismo. Il giovane inglese ha una responsabilità incredibile: è vero che sulla carta Andy Murray dovrebbe far due punti e il doppio profuma di Union Jack, ma se qualcosa dovesse andare storto, la chance di raddrizzare la situazione, sull’eventuale 2-2 di domenica, potrebbe spettare a lui. 20 anni, numero 100 ATP, con la classica faccia da bravo ragazzo e una pacatezza sinonimo di intelligenza. Ha già imparato a stare alla larga dai social network, e a piccoli passi sta scalando la classifica. Di recente ha vinto un Challenger, a Buenos Aires, sulla terra battuta. Sì, la sua superficie preferita.
Nella sua crescita, Andy Murray ha avuto un sacco di pressioni. Avviene lo stesso per te?
La pressione c’è, è innegabile, ma è una cosa normale, alla quale cerco di non dare molto peso. La si sente soprattutto nella breve parte di stagione sull’erba, quando per tre o quattro settimane giochiamo davanti al nostro pubblico. C’è un po’ di nervosismo in più, perché uno ci tiene a far bene davanti ai connazionali e onorare la wild card, mentre la gente vuole vederci vincere e ci sostiene più del solito. Ma questo tipo di supporto è splendido, aiuta a compensare la tensione. Una volta finiti i tornei sull’erba si torna a girare il mondo, lontano da casa, con meno aspettative da parte della gente, e ogni anno ci si ritorna con un po’ di esperienza in più, che aiuta a gestire le situazioni. Comunque, io in Gran Bretagna ho sempre fatto bene, sin da junior. E la mia prima partita ATP l’ho vinta a Eastbourne, nel 2013.
Da cinque mesi la tua classifica oscilla tra 99 e 110. Ti senti pronto per il grande salto?
Non è facile fare grandi salti in classifica, specialmente quando uno gioca tanti tornei Challenger, come ho fatto quest’anno. I punti sono molti di più a livello ATP, quindi qui bisogna vincere un numero di incontri molto superiore. Però quest’anno ho giocato ottimi match, su tante superfici diverse. L’obiettivo era di entrare fra i primi 100, anche se non è di certo un traguardo da festeggiare. Bisogna sempre guardare oltre, puntare a fare meglio. Per la mia carriera non ho un obiettivo specifico, voglio solo dare il massimo. Mi piacerebbe trovarmi, dopo aver smesso, con la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che potessi. A quel punto, se sarò arrivato 50, 30 o 5 non farà differenza. Anche se spero 5 (ride, ndr).
A quale punto del tuo percorso pensi di essere?
Sto ancora imparando tanto, giorno dopo giorno. Si scende sempre in campo per vincere, per dare il massimo, ma sono consapevole che non sono ancora pronto. Il percorso di un tennista è lungo. Lo vediamo tutti i giorni: oggi il picco dei giocatori è fra i 26 e i 28 anni. Quindi ho ancora anni per migliorarmi, non ho fretta. Voglio fare le cose bene, per arrivare a quell’età nel miglior modo possibile.
Sulla tua scheda ITF si legge che hai iniziato a giocare a 10 anni. Tardissimo.
È vero, ed è stato praticamente un caso. Io praticavo un sacco di sport, calcio, rugby, cricket, atletica, ma principalmente nuoto, il sabato pomeriggio. Me lo ricordo ancora. Poi un giorno mia madre mi ha iscritto a un corso di tennis. Così, per divertimento. La mia famiglia è molto sportiva, ma mai nessuno aveva giocato a tennis. A me è piaciuto, e intorno ai 13 anni ho mollato tutte le altre attività, cercando di concentrarmi al massimo sul tennis, di prenderlo sul serio. L’anno dopo sono entrato nel sistema della LTA, insieme a tanti altri giovani, trasferendomi a Roehampton (dove si allena tutt’ora, ndr). Ho iniziato a giocare tornei in giro per l’Europa, finanziato dalla Federazione. Mi hanno dato e mi danno tutt’ora un aiuto importante, coi voli, hotel, e coach. Al momento mi alleno con James Trotman.
Quando ti sei trasferito a Roehampton come immaginavi il tuo futuro da tennista?
Quando hai 14 anni non pensi a come sarà la tua vita, ma solo a divertirti. Guardi la tv e vuoi diventare come i personaggi che vedi, come i migliori giocatori. È solo quando inizi a viaggiare e a darti da fare che realizzi cosa c’è dietro, quando devi impegnarti, che per farlo devi guadagnare, e per guadagnare devi vincere. Nel mio caso è andata bene, perché amo questo lavoro, amo viaggiare. Mi diverte. La cosa difficile è la distanza da casa, non vedere a lungo famiglia e amici. Ma fa parte del gioco. E poi fortunatamente siamo nel 2015, c’è Skype, c’è FaceTime. Abbiamo mille modi per stare in contatto.
Cosa spinge un ragazzo di 20 anni a fare certi sacrifici per inseguire un sogno?
A 10 anni giocavo per divertimento, e ora che invece gioco per professione riesco ancora a divertirmi come allora. Giocare a tennis non è propriamente un lavoro. Noi tennisti siamo fortunati. Possiamo vivere facendo uno sport e girando il mondo ogni settimana, con tante gente che ci sostiene. Adoro questa vita, e la mia famiglia mi ha sempre dato una mano. I miei genitori hanno le loro attività, quindi non possono accompagnarmi quasi mai nei tornei, ma mi seguono molto, si interessano di tutto quello che faccio. Quando scendi in campo, aiuta sapere che fuori c’è tanta gente che ti supporta.
In Italia si dice che per un giovane emergente i problemi principali sono la prima macchina e la prima fidanzata. Come sei messo in questo senso?
Mi accontento della mia Polo, e con la prima ragazza non ci sto già più (ride, ndr).
È vero che la tua superficie preferita è la terra? Un po’ strano per un britannico…
È strano perché in Inghilterra le condizioni climatiche non permettono di giocare molto all’aperto, quindi la gran parte de campi sono indoor, e cresciamo tutti su superfici dure. Per questo la predilezione è per il veloce. Come in Italia è per la terra. Ma a me la terra piace. Ci ho giocato la prima volta a 14 anni, quando ho iniziato a giocare i tornei giovanili in Europa, e mi ha fatto una buona impressione. Anche negli anni scorsi ci ho giocato molto, nel 2013 la gran parte della mia stagione si è svolta sul rosso. È stata una scelta, un investimento. Non ho una superficie preferita, ma se proprio dovessi scegliere, sì, direi terra. Anche se ho fatto bene sull’erba, non credo di potermi definire un giocare da erba. Anche perché non lo può fare nessuno, la stagione verde dura solo quattro settimane.
Un giocatore cambia veramente il suo modo di giocare a seconda della superficie?
Sì, è naturale. Sulla terra la palla salta più alta, prende più spin. Sull’erba invece bisogna tenere il baricentro basso e muoversi meglio, più velocemente. Credo che un giocatore debba comunque provare a fare il suo gioco, attaccare se è un tennista aggressivo, o difendere se non lo è, ma qualche accorgimento è necessario. È così per tutti. Io preferisco i campi più lenti. Si discute spesso sulle differenze fra i campi in erba degli anni ’90 e quelli di oggi. Io quelli del passato non li ho provati, ma penso che preferirei questi. Preferisco giocare da fondo campo, come la gran parte dei giocatori attuali. Anche perché i campi sono spesso lenti, chi difende ha molto tempo per tirare il passante. Ho lavorato molto sulle mie volèe, ma se sto dietro è meglio (ride, ndr).
La gente si aspetta che tu possa diventare il nuovo Murray?
Andy è un fenomeno, ed è normale che tutti, ragionando su quando lui si ritirerà, pensino a me. Tutti vorrebbero un altro giocatore del suo livello, ma è difficilissimo. Comunque non mi pesa l’opinione della gente. Né di chi si aspetta grandi cose, perché gioco per me stesso e non per accontentare il pubblico, né di chi pensa che non sono al livello di Andy: sono il primo a saperlo. Non punto a diventare come lui, punto a fare il massimo, a dare tutto ciò che ho match dopo match, allenamento dopo allenamento.
Non capita a tutti di avere in squadra il numero 2 del mondo. Che rapporto avete?
Lo conosco da molti anni, mi ha dato tanto consigli, anche proprio sul modo di giocare. Quali colpi fare o non fare da una determinata posizione. Andy è veramente un ragazzo d’oro. Si vede che ha piacere ad aiutare noi giovani, tiene molto al suo paese, ama la Gran Bretagna, ama la nazionale, basta guardarlo per accorgersene. Per questo vuole fare il possibile perché altri britannici possano scalare la classifica e diventare buoni giocatori. Sapere che il numero 2 del mondo è disposto ad aiutarti ogni volta che glielo chiedi, per noi giovani non è male.
Sei nato a Johannesburg, da genitori sudafricani, ma cresciuto in Gran Bretagna sin dai 4 anni. Cosa hai preso dell’una e dell’altra cultura?
Sicuramente mi sento molto più britannico, anche perché qui ho trascorso gli anni più importanti della mia crescita. Se passi tanto tempo in un ambiente, insieme a della gente, bene o male qualcosa te lo trasmettono per forza. Seguo le loro tradizioni, il loro modo di vivere. Ma, anche se dei 3 o 4 anni passati lì non ricordo nulla, non trascuro il Sudafrica. Ho ancora tanti famigliari e qualche amico, con cui mi tengo in contatto e dai quali mi piace tornare quando ne ho la possibilità.
Se non avessi scelto la nazionalità britannica, in Sudafrica avresti esordito in Davis già da un pezzo, da numero due dietro a Kevin Anderson…
Magari sì, ma io punto a essere il numero uno. Della Gran Bretagna.
È quello il tuo sogno?
Diciamo che nella mia carriera mi piacerebbe vincere il più possibile, per me e per il mio paese, arrivare in alto ed essere ricordato per il bel gioco. Credo che un po’ dipenda anche da me stesso. Se davvero voglio una cosa devo essere disposto a lavorare per andarmela a prendere. Penso di essere sulla strada giusta, ma non guardo troppo lontano. Preferisco pensare giorno dopo giorno. Per arrivare a essere migliore tra dieci anni.
Cosa significa, per un britannico, vincere Wimbledon?
È il sogno di tutti, l’obiettivo massimo. La vittoria di Andy è stata un’ispirazione incredibile per ognuno di noi. La speranza è che qualcuno possa imitarlo. L’altro sogno comune è quello di vincere la Coppa Davis. Negli ultimi anni siamo sempre andati in crescendo. Andy è numero 2 del mondo, Ward ha sempre fatto bene, siamo una buona squadra. Magari è la volta buona.
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