Parigi 2024 è stata l’edizione che ha definitivamente ‘sdoganato’ il tennis come sport olimpico e dimostrato che anche fuoriclasse miliardari hanno i Giochi nel cuore
Ora che le Olimpiadi sono finite e ci hanno infradiciato di emozioni, posso dirlo: ha ragione Sara Errani: una medaglia olimpica, specie se è d’oro, vale di più. Vale più di uno Slam, vale una vita agonistica. E lei, che di Slam in doppio ne ha vinti cinque, può dirlo con cognizione di causa. Vale di più in sport apparentemente poco olimpici, come a volte viene considerato il tennis. Ma non tanto e non solo perché una medaglia la vinci per il tuo paese – per carità, conta anche quello – ma perché la vinci alle Olimpiadi, un concetto nato quasi ottocento anni prima di Cristo, e che ancora sopravvive: fra mille problemi, ipocrisie, difficoltà, nonostante le inevitabili ingerenze della politica e gli altrettanti dubbi che possono lasciare certi meccanismi o certi arbitraggi. Chi alle Olimpiadi ci è stato, lo sa: sono un’altra cosa. Sono il luogo dove tutti gli atleti del mondo si incontrano e – scusate la retorica, ma quando ci vuole ci vuole – tentano, sognano, desiderano di confrontarsi in pace. Immaginando una società, un mondo diverso. Le varie discipline sono fiumi, affluenti, Olimpia è il mare. Certo, ci sono sport che leghiamo di più allo spirito olimpico, che fanno dei Giochi non uno degli appuntamenti, ma l’appuntamento per eccellenza: atletica, ginnastica, nuoto, scherma. E altri, come il calcio, il tennis, in parte anche il basket, che vivono ogni anno e ogni settimana di traguardi diversi, molto prestigiosi. Ma l’edizione di Parigi ha dimostrato ancora una volta, forse in maniera definitiva, quanto all’oro tengano anche campioni che hanno già vinto tutto il resto, e che in teoria non avrebbero del sigillo a cinque cerchi per essere considerati immortali. Guardate che determinazione hanno messo nell’inseguire l’obiettivo Djokovic – come ho già detto: premiato dal Presidente del Cio Bach in persona -, e LeBron James, Steve Curry e Carlos Alcaraz, Remco Evenopoel e Paola Egonu.
Attenzione: ciò non vuol dire che chi le Olimpiadi ‘non le sente’ sia un paria, un atleta dimezzato o uno sporco mercenario. Lo sport professionistico ha le sue regole, chi fa l’atleta per mestiere bada al proprio interesse come fanno tutti i professionisti nel loro campo. E’ lecito, comprensibile, non ci sarebbe neppure bisogno di sottolinearlo. Penso solo – ed è un’opinione molto personale – che si perdano qualcosa. Una emozione superiore, diversa, che contagia tutti, atleti, allenatori, giornalisti, dirigenti, spettatori. Come ha detto la collega Federica Cocchi della Gazzetta dello Sport, «se siamo tutti qui è perché da piccoli ci siamo innamorati dello sport guardando mle olimpiadi in Tv». Proprio come Sara Errani. Il tennis dai Giochi è stato fuori per sessant’anni, e per molti ancora vive nella periferia ‘spirituale’ di Olimpia (compreso il mio caro amico Fabio Della Vida: mi perdonerà se stavolta la penso diversamente da lui) : forse è stato vero in passato per alcune edizioni, snobbate o poco considerate dai big. Valgono però due considerazioni: il tennis faceva parte, insieme ad atletica leggera, ciclismo, ginnastica, lotta, nuoto, scherma, sollevamento pesi, tiro sportivo e canottaggio (che poi non venne disputato per il maltempo), non è un parvenu, non è qualcosa di ‘estraneo’. E poi l’albo d’oro delle ultime cinque edizioni: Nadal, Murray (due volte), Zverev, Djokovic. Nel femminile l’eccellenza è arrivata prima – Graf, Capriati, Davenport, le due Williams, Henin, Dementieva – mentre le ultime edizioni sono state meno brillanti, e a Parigi la questione russo-bielorussa ha influito, ma Iga Swiatek era in gara e ha pianto lacrime amare per l’eliminazione precoce.
Voglio dire allora grazie a Sara, Jasmine, e Lorenzo, che ci hanno fatto sentire parte di questo sogno collettivo – ma anche a tutti quelli che ci sono stati o avrebbero voluto esserci, a chi ci ha provato, a chi ha dato quello che aveva. L’appuntamento è per Los Angels, fra quattro anni.