Oggi Grigor Dimitrov compie 23 anni. Si è regalato la prima semifinale in carriera in un Masters 1000. E si è tolto l'etichetta di piccolo-Federer.
Di Alessandro Mastroluca – 16 maggio 2014
“Grigor Dimitrov è il migliore della sua generazione, tocca a lui raccogliere la nostra eredità” ha detto Nadal qualche settimana fa. Detto fatto. Il “fu baby-Federer” si regala per il 23esimo compleanno la prima semifinale in un Masters 1000. Un nuovo inizio, dopo 12 mesi che lo hanno finalmente liberato dall'ombra del più grande di tutti i tempi. “Io sono me stesso” diceva a Deuce, il magazine dell'ATP, un paio di anni fa. Ora, dopo aver vinto il suo primo torneo a Stoccolma lo scorso autunno, dopo aver firmato quest'anno la doppietta a Bucarest e Acapulco, dove ha giocato un gran semifinale contro Murray, ed essere entrato per la prima volta tra i top-15, inizia anche a dimostrarlo. Non è solo un belloccio da copertina, non è solo “Mister Sharapova”, che per stare più vicino alla fidanzata ha deciso di abbandonare la Svezia e l'accademia di Magnus Norman, fondamentale nell'esplosione ad altissimo livello di Wawrinka, e trasferirsi negli Usa. Al Foro ha fatto meglio della russa e trovato sulla sua strada uno dei suoi “porta-fortuna”, l'avversario che ha scandito i momenti importanti della sua carriera: Tomas Berdych. L'ha battuto a Rotterdam, nel 2009, nel torneo che ha sancito l'inizio della collaborazione con Peter Lundgren e l’approdo tra i grandi: si fermerà al secondo turno dopo aver comunque tolto un set a Nadal. L'ha sconfitto anche a Miami due anni fa, firmando la sua prima vittoria contro un top-10. Eppure tra le prime grandi partite e la realizzazione del potenziale passano tanti, troppi anni. Da junior, il bulgaro brucia le tappe: titolo europeo U14 nel 2005, vittoria all’Orange Bowl U16 nel 2006, nel 2007 il titolo di Rising Star, stella in ascesa, all'Eddie Herr International e la finale all’Orange Bowl U18 (perde da Berankis,che ritroveremo più avanti); nel 2008 arriva il capolavoro, il trionfo a Wimbledon e allo Us Open junior. Da pro, tuttavia, le difficoltà si fanno sentire. “Dopo le grandi partite contro Rafa e Tomas – ha spiegato – pensavo che ormai fossi pronto per stare tra i grandi. E invece, ed è una delle cose più importanti da imparare nel tennis, devi capire come giocare bene sempre, non solo una partita o due. Non è come quando sei junior. Affronti giocatori che sanno come neutralizzarti perché ci sono passati prima di te. Ne puoi battere uno qualche volta, ma non basta. Io ho un po’ allentato la presa, e ho fatto male”.
SBOCCIATO TROPPO PRESTO
È mamma Maria che avvia il piccolo Grigor al tennis. A cinque anni gli mette in mano la prima racchetta e la prima pallina. È amore a prima vista. Così impara le basi insieme al papà Dimitar, maestro di tennis nel club di Haskovo, cittadina del sud della Bulgaria che ha dato i natali a un rivoluzionario dell'Ottocento, Tane Nikolov, e a Stanimir Kolev Stoilov, che ha allenato la nazionale con scarsissimi risultati nel 2007 e nel biennio 2009-2010. “Grigor imparava presto, come un pittore impara a disegnare – racconta – desiderava giocare con tutto se stesso. Era ossessionato, pensava sempre al tennis, giocava dalla mattina alla sera”. La sua filosofia non è mai cambiata: io sono io, fuori dal campo e soprattutto in campo. “Gioco come mi sento, in campo esprimo me stesso. Da junior mi capitava spesso di annoiarmi durante le partite e allora cercavo di tirare solo colpi impossibili – ha detto a Deuce – ancora adesso non so perché lo facevo, però era divertente: in fondo non giochi mai la stessa partita due volte. Non importa quante volte il coach ti dice di fare questo e quello prima del match. Io ascolto la mia voce interiore. Se voglio fare una cosa, la faccio. Penso sia fondamentale saper improvvisare. A volte il colpo più strano è il più vincente”. Sarà per questo che ha fatto dannare i suoi allenatori, da Pato Alvarez (che ha portato al successo Emilio e Arantxa Sanchez) a Peter Lundgren, da Patrick Mouratoglou a Magnus Norman. “Grigor già a 18 anni si è trovato addosso una pressione incredibile, ma non era pronto” ha spiegato Mouratoglou. Una pressione che gli derivava da quel paragone scomodo che Lundgren aveva fatto con tutte le migliori intenzioni: “E' meglio di come era Federer alla sua età”.
LA FURIA, POI LA DISCIPLINA
Il mondo voleva farsi stupire da quel ragazzo con le spalle strette, che ha finito per sembrare solo una brutta caricatura, la copia di mille riassunti dello svizzero. Nel 2009 si perde nell'inferno dei Futures e dei Challenger e perde da mestieranti come Fischer, Brands, Hajek, Bozoljac, Udomchoke, Balazs, Ianni. La consapevolezza di sé resta alta, troppo alta. "Credo di poter diventare numero 1 del mondo – diceva nel 2010 – questo è il mio obiettivo principale. Io credo nelle mie capacità, ma perché ciò accada probabilmente ho bisogno di vincere un paio di Slam, e non cadranno dal cielo". Ma di quella stagione resta solo la frustrazione, il senso di deprivazione relativa di chi non riesce ad essere all'altezza di sé. Nella fredda Helsinki si sfoga cercando di tirar giù dal seggiolone l'arbitro della semifinale persa contro Berankis. Il baby-Federer diventa, con evidente sarcasmo, solo “wannabe-Federer”, solo uno che vorrebbe essere Federer. Peter McNamara, che lo segue dal giugno 2010 alla fine del 2011, lavora soprattutto sulla testa del bulgaro e lo porta alla soglia della top-50, al numero 52. Poi un nuovo periodo di buio, esce dai 100 prima di farsi formalmente affiancare da Mouratoglou, alla cui accademia si allena già dal 2009. I passaggi successivi, la scelta di affidarsi all'accademia Good-to-Great di Stoccolma e poi a Rasheed, un coach e soprattutto un preparatore di livello assoluto, sono il segno della maturità, di una consapevolezza non più ingenua. Il tennis moderno è il regno della resistenza atletica, dell'agilità e senza muscoli adatti il talento non basta. I tempi dei giocatori neo-classici è finito. Il lavoro sul fisico paga. L'anno scorso batte Djokovic a Madrid e sfianca Nadal a Montecarlo: è il primo a togliergli un set prima dei quarti da quando ha trasformato il Principato nel suo regno. In 12 mesi fa passi graduali e costanti verso la realizzazione di quel sogno che sembrava lontanissimo. Ed è proprio il footwork, il lavoro di piedi, uno degli aspetti su cui ha insistito di più con Rasheed. Sia con Karlovic sia con Berdych, ha abbinato la concentrazione a una notevole reattività, alla capacità di ritrovare subito l'equilibrio in uscita dal servizio e di non perdere gli appoggi nel corso dello scambio. Ha messo la disciplina e il controllo al servizio della creatività e dell'espressione di sé. Adesso Grigor Dimitrov è solo Grigor Dimitrov.
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