Stavo camminando per quel meraviglioso miglio che ti separa dalla fermata di Southfields all’ingresso dell’All England Club. Era il primo giorno di Wimbledon 2001, quando mi raggiunge la telefonata di Vito Gibin, che allora si occupava dei giocatori per la Sergio Tacchini. Mi chiedeva di intervistare Goran Ivanisevic, nella domenica di mezzo, dedicata alla pausa per consentire agli abitanti del quartiere un tranquillo pic-nic nei parchi adiacenti Church Road. Cercai di spiegare, data l’insistenza, che quella domenica Ivanisevic sarebbe stato a godersi il sole su una spiaggia di Monte Carlo, visto che a Wimbledon era entrato grazie ad un generoso invito degli organizzatori e dopo aver beccato la settimana prima dal nostro Cristiano Caratti nel torneo di preparazione, al Queen’s Club. Riluttante all’idea, in un periodo in cui parlare con i top player non era affare di stato, accettai l’invito, semmai Ivanisevic avesse vinto tre match di fila e si fosse spinto fin lì. Il draw gli diede una mano, ricordate? Primo turno, il qualificato svedese Fredrik Jonsson, al secondo una delle teste di serie meno erbivore, lo spagnolo Carlos Moya (regolato in quattro set), quindi… quindi Andy Roddick, che non era ancora l’A-Rod che spaventava Roger in finale nel 2009 ma che sull’erba era già un test solido. Quattro set e seconda settimana garantita, così come la mia intervista. Indeciso se parlare del post-carriera come sembrava naturale, mi spiegò che se Dio avesse voluto, quell’anno gli sarebbe spettato il miracolo. Un’affermazione non proprio buttata lì, ma ribadita con estrema fede. Al punto che cominciai a pensare di avere uno sgub inaspettato (grazie and sorry, Vito!). Il resto della storia è noto agli appassionati: gli ottavi vinti contro l’anglo-canadese Greg Rusedski, i quarti contro l’amico di bisbocce Marat Safin, la semifinale fortunata contro l’idolo di casa, Tim Henman, con la pioggia che fermò il figlio di Oxford sul più bello (ah, ci fosse stato il tetto) e poi la finale, spostata al lunedì per il maltempo e con le tribune piene zeppe di nuovi avventurieri, che mai aveva solcato i cancelli di Church Road. Giovani australiani già colmi di Pimm’s agitavano canguri di plastica, in onore del loro Pat Rafter, che si presentò con una ciocca bianca rivedibile e un serve & volley che, da allora, non abbiamo più visto. Goran rimase sempre una lunghezza avanti, ma il quinto set lo portò a casa solo 9-7, con un paio di clamorosi doppi falli su altrettanti match point, e la preghiera, la supplica rivolta al signore di mettergli in campo l’ultimo servizio e di salvare il cuore malato di papà Srdjan, mai stato così vicino al collasso.
«Adesso Dio può anche non farmi più vincere una partita. Può anche impedirmi di giocare anche solo un altro match. Comunque siamo pari”. Amen. Tuttavia, prima del commovente epilogo di una carriera che era cominciata con premesse più brillanti, Goran aveva attraversato momenti bui, generalmente coincidenti con le finali perse ai Championships, contro Agassi e Sampras. In un paio di occasioni, aveva sprecato le sue chance e mai, in cuor suo, avrebbe più sperato di vincere ciò che più desiderava. A tratti, suppongo che gli avrebbe fatto meglio, piuttosto che confidarsi col sottoscritto in una lounge dell’All England Club, sottoporsi ad una una seduta col dottor Freud o, date le circostanze storiche, con uno dei suoi innumerevoli eredi. Ivanisevic infatti, confessò di avere una triplice personalità, condizione oggettivamente difficile da gestire: si trattava di Goran Il Buono che tirava un ace dietro l’altro e che in buona giornata faceva crescere le discussioni su come cambiare le regole del servizio («Basta togliere Ivanisevic dal circuito» sentenziò con la sua solita capacità di sintesi, Rino Tommasi), Goran Il Cattivo che invece gli faceva buttar via partite già vinte e lo consigliava di spaccar racchette come logico sfogo, al punto da essere costretto ad abbandonare un match a Brighton dopo averle fracassate tutte. E poi c’era Il Goran 911, quello doveva intervenire ogni qualvolta Il Goran Cattivo prendeva il sopravvento. E non accadeva così tanto di rado. Generalmente ci si accorgeva di quello status quando cominciava a salutare gli dei, oltre alle mamme dei giudici di sedia e a rivolgere epiteti irripetibili contro la signorina di turno che sventuratamente l’aveva accompagnato ad un torneo. Come quella volta a Milano, quando mollò un comodo match di primo turno dopo aver discusso (diciamo così) con la fidanzata a bordocampo per tutto l’incontro e con Cino Marchese, l’organizzatore, che inseguiva furibondo il suo manager, Gerard Tsobanian, che scappava dal Palalido urlando: «Oublie la garantie, oublie la garantie!». Ora Goran sembra un’altra persona: riflessivo, attento alla forma fisica e a dare i giusti consigli al suo allievo, Marin Cilic, che ha guidato fino ad una vittoria Slam, lo US Open 2014. Se vogliamo, un’impresa ancor più complicata della sua indimenticabile cavalcata a Wimbledon 2001.
Goran Ivanisevic
UN TALENTO SCONFINATO MA ANCHE TRE PERSONALITÀ DA GESTIRE INSIEME. UN’IMPRESA NON FACILE, FIN QUANDO TUTTO SI ALLINEÒ PERFETTAMENTE NEL LUGLIO 2001, E ALL’ALL ENGLAND CLUB SI COMPÌ UNO DEI PIÙ STRAORDINARI MIRACOLI SPORTIVI