AMARCORD. Quando il Direttore andò nel quartiere nero di New York subito dopo l’11 settembre. Da allora, non pare cambiato granchè. DI LORENZO CAZZANIGA
L'Harlem Tennis Center esiste ancora oggi
TennisBest – 21 agosto 2012
Questo articolo è stato scritto nell’autunno del 2001, quando Lorenzo Cazzaniga varcò la 125esima strada di New York ed entrò nel quartiere afroamericano per eccellenza. Venne fuori il racconto di una realtà – quella del tennis dei neri – ancora in evoluzione, in cerca di se stessa. Una realtà che viveva nel ricordo di Arthur Ashe e nella speranza che James Blake diventasse il Kobe Bryant del tennis. Non è andata esattamente così, e tra i ragazzi citati nel pezzo nessuno è riuscito a entrare nel ranking ATP. Tuttavia qualcuno di loro si è laureato, dando un senso al programma in cui erano coinvolti. Sorelle Williams a parte, il tennis dei neri non ha sfondato come forse ci si poteva attendere. Negli ultimi 10 anni sono emersi solo due giocatori di alto livello: Donald Young e Sloane Stephens. Il primo lotta ancora per evitare di essere ricordato come “bidone”, mentre lei potrebbe rappresentare una nuova speranza, e alle sue spalle spinge la giovanissima Taylor Townsend. Ma gli ultimi 10 anni non hanno offerto nulla, salvo qualche meteora come Scoville Jenkins, Ahsha Rolle e Angela Haynes. Ma una bella notizia c’è: a differenza di quanto si temeva ne 2001, l’Harlem Tennis Center c’è ancora. Un motivo per tenere viva la speranza. Buona lettura. (Ri. Bi.)
Di Lorenzo Cazzaniga
(La foto in home page è di Ray Giubilo)
Leslie Allen è una bella donna di 180 centimetri slanciati, un’energia contagiosa e quell’ottimismo che ti fa nausea tanto è capace di irradiarsi qualunque vicenda la vita le riservi. Prima giocatrice nera capace di vincere un torneo professionistico (a Detroit nel 1981) dai tempi di Althea Gibson (anni 50), Leslie si presenta con una station wagon arrugginita. Nel bagagliaio a vista, due cesti di palle e un borsone di racchette. Ci lasciamo alle spalle Central Park e superiamo la 125esima strada, un tempo considerato il Muro di Berlino di New York, una linea immaginaria oltrepassata solo dai V.B.S. (Volontari Bianchi Suicidi). Da quando Bill Clinton ci ha messo l’ufficio è diventato un quartiere residenziale. “I pericoli si sono spostati verso uptown – ci spiegheranno in seguito – i neri ormai sono dei boyscout a confronto dei portoricani”. Harlem ha dato natali professionali importanti: Duke Ellington si è affermato suonando all’Apollo Theater, e così Billie Holiday ed Ella Fitzgerald. Pure Aretha Franklin ha canticchiato tra la 110 e la 150esima strada. E in questi quartieri ha vissuto anche Fred Johnson. Da ragazzo perse un braccio in fabbrica, ma ritenne la menomazione per nulla sufficiente a fargli abbandonare la sua prima passione: l’insegnamento del tennis. Per le mani aveva una bambina dal temperamento acceso e ribelle, quello che serviva non per scappare dal ghetto, ma per farne ascoltare la voce. Si chiamava Althea Gibson: anche lei suonava con piacere il sax, ma le riusciva meglio manovrare una racchetta. Nel 1957 avrebbe vinto Wimbledon e i Campionati degli Stati Uniti.
A Fred Johnson è dedicato un parco pubblico, giusto dirimpetto una Primary School, sulla West 150th all’incrocio con la 7th Avenue. Su due file ordinate, otto campi da tennis in cemento e una scritta ammonitrice: “Tutti i giocatori devono essere in possesso di un permesso convalidato. Per qualsiasi domanda…(212) 408 – 0100”. Sullo sfondo invece si scorge lo Yankee Stadium, teatro di numerose battaglie antirazziali portate avanti da Jackie Robinson, primo nero a giocare nella Major League di baseball con la maglia dei Brooklyn Dodgers. A fianco del campo n. 8, contro un muro di 20 metri, una vecchio signore allena un dritto lento, ma ben portato. Si vede che è del luogo da come si muove e per la scritta sulla t-shirt: “Pyramid Harlem Tennis Association”. Si chiama Robert Ryland, ha 82 anni, gioca a tennis da 72 e lui, c’è da credergli, Fred Johnson l’ha conosciuto di persona. “Ai miei tempi era tutto più complicato: Mi chiamavano ‘nigger’ e io rispondevo: ‘Esatto, con due g’, quasi dovessi fare lo spelling del mio nome. Mi sentivo come un pagliaccio che fuori rideva e dentro piangeva. A tennis ci giocavi di nascosto e nei tornei dei bianchi non ci potevi mettere il naso. Il ghetto era qualcosa di serio, non il set di qualche film demenziale. Adesso le cose vanno decisamente meglio: un ragazzino nero che ha voglia di giocare trova un campo ogni due isolati. Però lasciamo perdere il passato e le storie strappalacrime: ho già abbastanza problemi per conto mio”. Tuttavia, il tennis tra i “coloured” ha sempre fatto la figura del vaso di coccio tra quelli di pietra, rappresentati dal basket e dal football americano, discipline più economiche e più inclini a dar sfogo alle frustrazioni quotidiane. Per anni, gli unici neri che si sono fatti onore a Flushing Meadows sono stati un jazzista e un campione del passato, ma né Louis Armstrong né Arthur Ashe hanno chance di vincere i campionati americani, successo che manca in campo maschile da 33 anni. Ma soprattutto, a mettere insieme i giocatori neri presenti nel ranking mondiale non si organizza un match di doppio. Però Ashe (pace all’anima sua) la sua parte l’ha già fatta. Nel 1969, insieme all’amico Charlie Pasarell e al businessman Sheridan Snyder, ha fondato la National Junior Tennis League. Il formato è semplice, offrire gratuitamente la possibilità di giocare a tennis alle minoranze enfatizzando lo spirito di gruppo e la sportività. Un obiettivo perseguito da qualsiasi programma portato avanti a favore delle minoranze. “Lo scopo del nostro ‘Champions 4 Life’ – spiega Leslie Allen – non è quello di creare campioni, ma uomini dignitosi”. Nella presentazione della Harlem Pyramid Tennis Association si legge testualmente: “I nostri obiettivi sin dalla nascita nel 1973 sono disciplina, lealtà sportiva, autostima, salute fisica e senso di responsabilità”. Però nel frattempo Venus e Serena, Rodney Harmon e James Blake sono venuti fuori da programmi di questo genere. E Zina Garrison e Lori McNeil dai parchi pubblici di Houston. Tutto grazie ad Arthur Ashe, il primo a credere alla bontà di queste iniziative e a promuovere un obiettivo sociale al fianco di quello sportivo. “Il successo – era solito dire Ashe – è un viaggio, non un punto d’arrivo. E il mezzo con cui si conquista l’obiettivo è più importante dell’obiettivo stesso e delle sue conseguenze”. Un atteggiamento che incarnava tanta civiltà e al contempo convinzione dei propri ideali, che arrivava a far imbestialire i temperamenti più focosi come quello di Billie Jean King, che pure di nero aveva solo gli occhiali: “I’m blacker than you” (sono più nera di te), lo apostrofò una volta.
Nella crescita sociale dei neri d’America, Ashe ha rappresentato la pagina sportiva. E’ stato il primo negro professionista; il primo negro a vincere Wimbledon e ancora il primo negro a vincere lo Us Open. Tutti lo ricordano per questo, ma nel rimpiangerlo, pur senza trascurare i suoi meriti sportivi, vanno esaltati quelli umani, spesso i primi ad essere dimenticati dalla società civile. Levar Harper-Griffith, la miglior speranza nera dopo James Blake, ricorda che a scuola veniva chiamata “Arthus Ashe, dagli amici cestisti” e che “Solo i sacrifici di mia madre Bernice e le cure dei maestri della NJTL di New York mi hanno dato la chance di trovare una sistemazione in una Academy di Sarasota e di continuare a vivere il mio sogno di tennista professionista”. “L’interesse dei neri per il tennis è in forte crescita – continua coach Allen – negli ultimi 20 anni il numero di praticanti afro-americani si è quadruplicato e secondo recenti statistiche, il 6.3% della popolazione afro-americana è interessata al tennis”. Come a dire che si tratta di una mera questione temporale prima che lo sbarco dei black nel mondo del tennis faccia rumore. Ma cosa difetta ancora perché questo accada? “Money Factor – lo definisce Zina Garrison, finalista a Wimbledon nel 1990 e ora membro del board della federazione americana – i programmi di base non mancano, ma poi serve una barca di soldi per sviluppare un talento. E questi, se vivi ad Harlem, probabilmente non li hai”. Ogni anno la USTA investe 8,5 milioni di dollari nei programmi destinati alle minoranze; tanti, ma nemmeno troppi se si considera che il budget totale è di 180 milioni di dollari. E se è vero che attualmente sono 640 i programmi della NJTL (circa il doppio rispetto ai 331 dell’anno scorso) e che coinvolgono 191.000 giovani, è altrettanto vero che pochi di questi nuovi appassionati sono destinati ad arrivare fino al mondo professionistico. “La USTA è brava nel promuovere il gioco a livello di base, ma sono una manciata i programmi come il ‘Champions 4 Life’ che si prefigge di portare un giovane dal primo apprendimento alla carriera pro – continua Leslie Allen – Bisogna focalizzare maggiormente l’attenzione slla strada che porta al professionismo”. “E’ quello che stiamo cercando di fare – ribatte Robert Ruzanic, chairman della Coppa Davis americana – James Blake è il primo e più interessante prodotto di questo nuovo corso. James non è finito a studiare ad Harvard perché è nero e gioca bene a tennis, ma perché è un ragazzo capace, dotato di un’intelligenza superiore alla media. Sarà il nuovo Ashe, ma non perché vincerà Wimbledon o Us Open, ma per il modo in cui si rivolge alla gente e promuove il tennis e la sua immagine”.
Quando Hewitt lo ha verbalmente offeso allo Us Open, tutti i giornalisti di colore hanno cercato di aizzarlo contro il giovane australiano e di rievocare la questione razzista, lui, per la prima volta alla ribalta internazionale, ha respinto la provocazione e ha saggiamente minimizzato l’accaduto. Nel frattempo i suoi progressi gli sono valsi la prima convocazione in Davis e lo sbarco tra i top 100 della classifica mondiale. I gruppi manageriali hanno lottato per metterlo sotto contratto: alla fine l’ha spuntata IMG sull’Advantage. “James può diventare il Kobe Bryant del tennis – ha sentenziato Pat McGee dell’Advantage – come Kobe è il classico ragazzo a cui riescono delle cose che ti fanno pensare ‘Ma come diavolo fa?’”. Ma diventare il nuovo Ashe o la prossima Williams, la nuova Garrison o il prossimo Blake, non è il fine ultimo di ogni approccio al tennis.
Tyrone Anderson, un omaccione che per via della stazza non contraddiresti mai, dal Queen’s è tornato ad Harlem (“Perché i giovani sognano di scapparci, ma i vecchi di ritornarci”) e per sua figlia Lauren, 12 anni, sogna soprattutto la borsa di studio universitaria da conquistare proprio attraverso il tennis. “Una buona Università privata – spiega Mr. Anderson – costa tra i 15 e i 25.000 dollari l’anno: non potrei mai permettermelo. Posso solo sperare che Lauren la conquisti grazie al suo talento tennistico”. E, come Lauren, lo sperano anche gli altri atleti immortalati nella nostra copertina: Lloyd Dillon jr. (New Orleans), Arianna Van Sluytman (Queen’s NY), Bretton Bent (Harlem, NY), Luchen Thomas (Harlem NY), Danielle Spigner (Brooklyn NY) e Randy Abreu (Washington Heights, NY). Una scholarship tennistica vale tra i e 10 e i 30.000 dollari e, ogni anno, sono circa 7.500 quelle offerte ai tennisti più promettenti; 105, invece, sono i College che offrono borse di studio tennistiche e che storicamente sono istituzioni nere, son una predominanza nera sia tra i loro studenti che nelle loro squadre sportive. Una strada che risulta percorribile soprattutto a livello femminile, dove non c’è la concorrenza di football e baseball. “Per ogni borsa di studio data a un tennista, 100 ne vengono offerte a un quarterback, un running back o un pitcher. Lo scontro è duro, anche se gli altri mercati sembrano ormai saturi e si cercano nuove vie” spiega ancora Ruzanic. Ma la battaglia è tutt’altro che facile. Il tennis, come sport individuale e ancora etichettato d’elite, non è conforme allo spirito di aggregazione che generalmente accompagna i programmi sportivi delle minoranze. Un esempio è la volontà (per quest’anno rimandata se non proprio definitivamente repressa) della Police Athletic League di abbattere lo storico Harlem Tennis Center della New York City’s 369th Regiment Armory per far spazio a una pista d’atletica e a qualche playground di basket. Da questi campi sono passate leggende come Arthur Ashe, Pancho Gonzales ed Earl “The Pearl” Monroe che, abbandonato il tennis, è poi diventato una stella dei mitici Harlem Gloetrotter. E non ultimo l’intera famiglia Blake con il padre che ancora adesso insegna in uno dei programmi giovanili. Sarah Allen, madre di Leslie, ha contato otto strutture multisportive tra la 135esima e la 145esima strada e la quinta e l’ottava Avenue. “Harlem è già piena di campi da basket. Se chiudiamo invece il Tennis Centre dove andranno i giovani neri a imparare il gioco? E gli adulti? E gli istruttori che sopravvivono grazie all’insegnamento?” Senza considerare che ci sono almeno quattro College (CUNY, John Jay, Long Island University e Bernard Baruch) che si allenano su questi campi. Come fa giustamente notare Arvelya Myers, ma matrigna storica del tennisad Harlem, se chiude il tennis all’Armory, non ci saranno campi da tennis indoor pubblici per otto isolati. Bisognerebbe spingersi fino a Lowe Manhattan dove i prezzi rendono la pratica preclusa ai non milionari (di dollari). E’ indubbio che la 369th Harmory è sottoutilizzata perché sono ci sono 50-100 ragazzini presenti nello stesso momento, ma bisogna anche capire che il tennis è uno sport diverso dal basket, dall’atletica, dal baseball o dal football americano.
Ma l’America è storicamente la patria delle contraddizioni, l’America è una paese dove “La violenza del razzismo pareva sopita – confessa Leslie Allen – ma certamente, nel mondo del tennis, l’establishment è ancora in gran parte composto dai bianchi (solo due dei 15 elementi del board della USTA – la federazione americana – sono neri, Zina Garrison e l’ex sindaco di New York David Dinkins, ndr)”. La stessa presidentessa uscente, Judy Levering, ha ammesso che la USTA è una federazione molto conservatrice. E Doug Smith, celebre giornalista di Usa Today, rincara la dose: “Il problema è che i dirigenti del tennis non sono poi così desiderosi di aprire nuove porte. Sono dei bianchi che appartengono all’elite di questo sport e non accolgono facilmente dei colleghi di colore. Ma questo è un problema che riflette l’intera situazione della società americana. Guardate un qualunque settore pubblico di una certa importanza: le minonranze non sono quasi mai rappresentate”. E ancora, Alexandra Stevenson, semifinalista a Wimbledon 1999, figlia di mamma Samantha (bianca) e papà Julius (Erving, nero), si è spesso lamentata di ricevere aggressioni razziali da parte delle sue colleghe. Sentite mamma Stevenson: “Ho sempre cercato di proteggere mia figlia, ma le violenze sono sempre maggiori, infime e insidiose. Ho cercato di offrirle spiegazioni rassicuranti; però non è sempre facile. Una volta eravamo in vacanza in Texas e andai a prenotare una lezione di tennis. Tutto regolare fino a quando non si accorsero che mia figlia era ben più scura di me, tutti i campi liberi ben presto furono dichiarati riservati. Non voglio dire che tutta l’America è razzista, ma non si deve nemmeno chiudere gli occhi e far finta di niente, subire senza reagire”. Tuttavia, pare che la tendenza sia differente: “In questo momento negli States si professa un grande desiderio di unità, soprattutto dopo gli attentati di New York. In questo momento non esistono bianchi o neri, democratici o repubblicani, ma solamente cittadini americani” ribatte Robert Ruzanic, bianco come il latte. E così può succedere che in un sondaggio, promosso dalla rivista americana “Tennis”, il 55% degli appassionati preferirebbe non si ripetesse una finale tutta Williams allo Us Open, ma nel frattempo capitan Pat McEnroe lascia fuori il mormone Todd Martin dal team di Davis per far esordire il nero James Blake. Che a sua volta, alla richiesta di autoglorificarsi per le due belle vittorie ottenute, risponde: “Io, James Blake, non ho vinto due incontri. Tutti insieme ne abbiamo vinto uno più grande”. I neri d’America e il tennis non si sono ancora sposati, però vanno già a letto insieme.
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