A 31 anni poteva credere fosse troppo tardi per costruirsi una bella carriera, invece Giulia Gatto Monticone sta vivendo un sogno: a 17 anni dal suo primo punto WTA, si è meritata il main draw a Roland Garros e Wimbledon, dove ha sfidato Serena Williams sul Centre Court. Ora l’obiettivo sono la top 100 mondiale e la Nazionale. E continuare a essere una torinese bogia nen, esempio di come tante avversità si possono comunque superareAveva 5 anni, abitava a Castiglione Torinese con mamma Anna Maria, papà Fortunato, un fratello e una sorella già abbastanza grandi per frequentare la polisportiva Pedaggio. Giulia li osservava dalla prigione della ringhiera, sul balcone della cucina, e insisteva per giocare. Finché i genitori non si arresero alle proteste e la iscrissero al corso estivo di tennis: «Penso fosse destino – dice -. Mia mamma aveva scoperto di essere incinta di me proprio giocando un doppio, un giorno in cui era sempre stanca e non capiva perché. Non avevo mai preso una racchetta in mano, eravamo in dieci per campo: facemmo subito gara di palleggi e riuscivo a colpire senza sbagliare». Era il suo sport, insomma. Però, per essere una predestinata, il fato deve essersi preso il gusto perverso di divertirsi con la pazienza di Giulia Gatto Monticone, sabauda doc, 31 anni a novembre: primo punto WTA nel 2002, a 15 anni, da osservata speciale in federazione; primo match in un tabellone principale Slam dopo altri 17 anni, il 26 maggio 2019, oltre ogni limite ragionevole per postdatare l’inizio di una carriera di alto livello.Passeggiando per i viali della sua seconda casa, il Sisport, circolo di Mirafiori iperprotetto da sbarre e tornelli, creatura di dipendenti Fiat che volevano svagarsi dopo il lavoro, si guarda indietro e, nel rimestare i ricordi della sua travagliatissima traversata nel deserto dello sport, non sembra vederci nulla di fuori posto: le cose sono semplicemente andate come dovevano, con i loro tempi. «Se non altro, adesso ho il vantaggio di vivere queste esperienze con un’altra maturità e di saperle apprezzare meglio». Deve somigliare a laurearsi dopo aver fatto una famiglia, entrare negli Slam con intorno ragazzine – vedi Cori Gauff – che nascevano quando tu avevi già classifica mondiale: gli esami restano esami, la tensione idem, ma la vita ti ha insegnato a guardare il mondo un po’ di sbieco. Una prospettiva che, da teenager, solitamente si tende a ignorare, a scapito dell’assolutismo: vincere è gioia assoluta, perdere è sentirsi morire. Al più, un velo di rimpianto per non aver capito prima cosa le servisse per emergere dal limbo, al di là di come portava il bel rovescio lungolinea che amava tirare per uccidere lo scambio, e che l’ultimo guaio al polso ha costretto a curare intervenendo su peso, bilanciamento e incordatura della racchetta. Al Sisport sono passati Pietro Mennea, Sara Simeoni, i Boggiatto, Claudio Marchisio; ci trovi le squadre di Juve e Toro, i ragazzi e i settantenni che si giocano il caffè in doppio tra una stecca, una presa in giro e un servizio da sotto. Campi in terra e Greenset, la piscina, la pista d’atletica, la palestra, pure un fisioterapista residente. E poi c’è lei, Giulia, ex promessa coccolata del tennis italiano, che non riesce a vedersi né maestra col cesto, né casalinga giurisperita e con prole come la sorella maggiore, né ingegnere aerospaziale come il fratello, ma solo tennista professionista. E forse è per questa ragione che «crederci» non è stato solo un modo di dire sdrucito, che può significare tutto e niente, ma davvero l’unica strada, a costo di mantenersi l’attività con gli espedienti della Bundesliga e della serie A. E intanto provarci, provarci, provarci.Da ragazzina, Gatto Monticone la leggevi nei notiziari tra le più vincenti delle giovani piemontesi, insieme a Giulia Gabba (come lei classe 1987, ex 15 al mondo under 18 e 183 WTA nel 2009); affrontava la pari età Sara Errani «e spesso ci vincevo, poi lei ha avuto il coraggio di andare all’estero e ha fatto la carriera magnifica che conosciamo, io sono rimasta vicino a casa e ho fatto le mie scelte, lo scientifico a Torino, pure un anno di Economia perché i miei genitori volevano che studiassi». Mentre Vinci e Pennetta si giocavano il titolo allo US Open («Ma per me non era uno stimolo a imitarle, le vedevo troppo lontane, erano giocatrici di un altro mondo»), lei si curava una bua al polso di cui nessuno, se non gli intimi, aveva notizia. A quasi 28 anni, e dopo due visitine Slam fugaci nelle qualificazioni di Flushing Meadows (2011 e 2014), il suo era stato un cammino in pura penombra, una vitaccia in tornei sconosciuti (Telde, El Espinar, Ystad, Aschaffenburg e tappe assortite nella steppa), pronto a essere abbandonato per esaurimento di energie e assenza di alternative. Avesse smesso allora, non se ne sarebbero accorti che parenti e amici, perché se giochi a Luan, Qujing o Tsukuba, dove se perdi al primo turno ti sei pagato la colazione in aeroporto e, anche se vinci il torneo, non esce mezza riga manco su un blog, «fai davvero esperienza, perché non è come nei grandi eventi: se ti trovi in Cina e devi prendere un trenino regionale per arrivare al circolo, è già tanto se non ti perdi, nessuno conosce la tua lingua o parla una parola di inglese» e, soprattutto, nessuno ti aspetta. Dopodiché, se arrivi, trovi ostelli con pareti scrostate che ti tocca fare il segno della croce, mense con piatti che riesci a invidiare il rancio in caserma, altro che i probiotici e i gluten-free di Djokovic; palle spelacchiate, avversarie incarognite, zero soldi, pochi punti. A parlare accanto a Giulia, di viaggi e di vita nel tennis, è il suo controcanto, coach, fidanzato, amico e confidente, Tommaso Iozzo, un ragazzo di Livorno dal piglio deciso che è stato complice nel progetto impossibile: dal niente al Centre Court di Wimbledon, all’età buona per salutare la compagnia. Iozzo è, a un tempo, maestro di tennis con targa e psicologo con laurea magistrale; ha studiato neuroscienze e, le palline, sogna come comandarle pure di notte. Tanto che, una volta, fece fare un salto alto così nel letto alla sua donna, urlando nel pieno di un sogno: «Fai lo schema! Tre incrociati e un lungolinea!».E quando Giulia, di quei tempi grami dove anche trovare un piatto di pasta decente era un’impresa, dice «ho continuato perché non mi andava di smettere così, perché mi ero fatta male, senza aver realizzato il mio sogno», nonostante non esistessero ragioni logiche per non arrendersi all’ultimo infortunio, coglie il senso più diretto e vero di una primavera che ha aspettato quindici inverni, prima di esplodere. Ma alla fine è scoppiata, con la sua prima volta all’Australian Open. Un posto magico, un paradiso per i giocatori e un luna park per lei, altro che i trenini-caffettiera cinesi: «I primi giorni, non riuscivo ad andarmene dal circolo. Ogni due minuti che mi fermavo a guardare, mi passavano davanti dieci ex numero uno del mondo: era fin troppo! Emozioni, stimoli, adrenalina: era bellissimo, i giocatori sono serviti e seguiti in tutto, ma anche dispendioso: insomma, è difficile stare lì e pensare solo alla partita». Sì, Melbourne Park non è l’ITF scrauso di Luan: l’avventura finisce subito contro Allie Kiick, ma anche con la promessa che non sarà l’ultima volta. Un bagno di tennis minore in Giappone, il primo ingresso nelle top 200 a marzo, e poi la gioia più grande: maggio 2019, Giulia Gatto Monticone si qualifica per la prima volta in un torneo dello Slam, il Roland Garros. Quando batte, dopo una lotta feroce di fiatone e principi di crampi, Katarina Zavatska (13 anni in meno e la tigna acerba di cui sopra), non riesce a trattenere una lacrimuccia e una frase poco consona all’understatement piemontese: «Me lo meritavo». Ed è la pura verità. Perde al primo turno contro Sofia Kenin, ma i suoi astri si stanno allineando. La classifica inizia a recitare numeri da batticuore (149, per un momento è la seconda italiana nel ranking), i montepremi non sono più mance – 53.000 dollari solo a Parigi, il 20% di quanto raccattato in tutta la carriera – e già tocca a Wimbledon. Per guadagnarsi l’ingresso al tempio, le si parano dinanzi tre match nel parco di Roehampton dopo qualche allenamento arrangiato, disegnando righe da tennis sul campo da calcetto (con annessa scivolata, costata l’ennesimo infortunio). Al terzo turno, pare tutto perduto: Ocean Dodin è in vantaggio 6-3 4-1, ma Giulia dà l’anima per guadagnarsi un match che vale una vita di tappe ITF. Ce la fa. «Sulla navetta ho pensato a Roland Garros, dove mi avevano messo sul campo 4 e, un pochino, mi era spiaciuto perché non sapevo quante altre occasioni avrei avuto di giocare su un campo importante. Stavano sorteggiando il tabellone: a un certo punto ho visto il telefono di Tommaso che iniziava a illuminarsi e ricevere una raffica di messaggi: “Giulia è stata sorteggiata contro Serena!”. Ero al settimo cielo: io, sul Centre Court, contro la regina… Cosa potevo chiedere di più?».Per due giorni, Tommaso e Giulia non parlano del match. «Poi però, ovviamente, l’ho preparata per vincerlo – aggiunge lui -. Devi affrontare un contesto, non una giocatrice, e se provi a non perdere, a limitare i danni perché giochi contro la Williams, sei spacciata. Le ho ricordato i punti di riferimento, di guardare verso il nostro box… Se inizi a far mente locale su chi è passato per quel campo, guai. Le ho detto di non aprirle gli angoli, altro che farla correre come suggeriscono alcuni. E di provare a impostare lo scambio sul rovescio, perché sul dritto Serena sta sempre aperta, è imprevedibile, non sai mai dove può tirare». Per il resto, toccava sperare: quando serve ai duecento, Serenona fa tremare i polsi. Il filmato mentale di Giulia, invece, è in soggettiva: «Il giorno prima, mi hanno mostrato il percorso che avremmo dovuto fare: lì è come una chiesa, c’è una cerimoniale da rispettare, in più ci sarebbero stati i reali a seguire il match. Sono entrata sul centrale e l’ho trovato vuoto, senza rete. La prima cosa che ho notato è che gli spazi erano ampi, le tribune non sono verticali, non mi sentivo in gabbia e la sensazione di apertura mi ha tranquillizzato. Provavo a immaginarmi Serena dall’altra parte della rete perché, di solito, la guardo in televisione… Quando sono entrata in campo, ho visto il mio nome sul tabellone accanto al suo: è stato davvero difficile non farmi travolgere dalle emozioni. Quindicimila persone, e sono vicine, le puoi vedere tutte quante in faccia. Durante il sorteggio la guardavo, non mi sembrava vero che stessi per giocare contro di lei, a Wimbledon. Mi sono sforzata di pensare solo alla palla». Non riesce benissimo: pronti, via e 5-0 Serena. «Ma dopo un paio di game lottati, ai vantaggi. Avevamo messo in conto di poter prendere anche 6-0 6-0, eh. Dopo il primo gioco, vinto con due ace, mi sono sciolta e sono riuscita a godermela. Al termine del match, lei mi ha detto “You’re an amazing player”, sei una giocatrice fantastica: non me lo aspettavo e chissà se lo pensa davvero, ma è una cosa che porterò con me. Le ho detto che lei è la regina, e le ho chiesto se potevamo fare una foto insieme ma ero talmente emozionata che non trovato più il telefono. Allora ci ha pensato lei».E perché di tutto questo non resti solo traccia su Instagram, ma continui anche allo US Open e oltre, Giulia si è portata dietro Stefano Pucci, suo preparatore atletico storico. Pare che, al di là delle mansioni professionali, talora debba anche fare da paciere tra i due fidanzati, che ci hanno messo un bel po’ per accordarsi su cosa fosse meglio per il tennis di Giulia e, dopo cinque anni, iniziano a interpretare la musica che lui ha scritto e lei si è fidata a suonare («Anche se l’ultima discussione è dell’altroieri», soggiunge lui). Se Pucci deve ragionare sulla sua giocatrice, senza volersi inerpicare in paragoni, pensa ai grandi vecchi del tennis, come Connors che fece semifinale Slam a 39 anni, Roger e Serena che fanno faville nell’anno dei 38: la vita utile dello sportivo si è spostata avanti, e parecchio. «Giulia ha qualità coordinative molto buone, semmai ha qualche difficoltà nella forza esplosiva e tutti i giorni si lavora per migliorarla, con buoni risultati. Ho a che fare con lei da quando era under 14, adesso tendo a lavorare sullo specifico, abbiamo inserito anche la pratica di arti marziali per sviluppare altri aspetti, mentali e non». La scelta è costata qualche livido e un mezzo rimprovero a Tommaso da parte della (quasi?) suocera, l’unico arrivato insieme a generiche e blande lamentele sulle trasferte della figlia ai confini della Terra, con tanti tornei vicino a casa. Quelle sfacchinate che fanno esperienza. «Comunque – aggiunge Pucci – adesso è dopo i 30 anni che molti fanno i risultati, grazie alle conoscenze su alimentazione, programmazione, fisioterapia, gestione di sé. Tecnicamente, col tempo, migliori e la pulizia del gesto ti aiuta a prolungare la carriera: oggettivamente, chi ha qualità può stare in alto fino a 40 anni». E allora, perché non lasciare briglia sciolta all’ottimismo: le prossime croci da segnare in agenda sono l’ingresso tra le prime cento del mondo e una convocazione in Fed Cup («Tathiana Garbin è sempre presente negli Slam, c’è un bel rapporto di collaborazione: ovviamente ci spero, sarebbe bello andare in nazionale»). Una terza, non tecnica, recita “cercare casa insieme”: frattanto lei sta ancora nella casa di Castiglione, con mamma che l’aspetta ogni volta che parte col valigione.
Poi, chi lo sa: in tempi non sospetti, l’idolo di Giulia Gatto Monticone era Kimiko Date. Proprio lei: una campionessa in cui rivedeva i suoi colpi poco lavorati, che lasciò il tennis da ragazza e tornò a giocare gli Slam a vent’anni dalla prima semifinale per smettere solo da zia, vicina ai 50. Il torinese è chiamato bogia nen, letteralmente “non muoverti”. Che non significa, come molti suppongono, essere pigri, ma saper resistere alle avversità, come un albero esposto ai venti. Giulia Gatto Monticone ne ha dovute vivere, di tempeste, anche peggiori di una stagione andata male. Non ha mai fatto crac e, quando nessuno li aspettava più, sono arrivati i fiori.
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