L’EDITORIALE – I numeri dimostrano che i nostri migliori prospetti non hanno maturato il giusto numero di esperienze contro i top-50 e i top-100 ATP, preferendo affidarsi ai (tanti) challenger italiani. Il paragone con i Seppi e i Fognini (che avevano seguito il Dogma-Piatti) non è nemmeno proponibile. Nei prossimi quattro anni cambierà qualcosa?Mi è capitato spesso di discutere con coach professionisti della programmazione di un determinato giocatore, di ciò che influiva, di come veniva studiata. Un concetto che mi è rimasto molto impresso è quello che da sempre porta avanti Riccardo Piatti, e quindi il suo fedele scudiero, Massimo Sartori: bisogna avere il coraggio di confrontarsi con realtà più forti per poter valutare il proprio livello, fare esperienza e migliorare. Non più tardi di un mese e mezzo fa, durante un’intervista pre-Wimbledon, coach Piatti arrivò a dirmi che avrebbe preferito vedere il suo pupillo (Milos Raonic) perdere nei quarti lottando contro Djokovic, piuttosto che andare più avanti grazie ad un tabellone più fortunato (anche se poi non credo gli sia dispiaciuto realmente che abbia evitato il n.1 del mondo e si sia spinto fino alla finale dei Championships). Questo perché “sono partite come un quarto di finale Slam contro Djokovic che ti fanno crescere ed è proprio la mancanza di esperienza accumulata in quelle situazioni che ancora marca la differenza tra Raonic e i più forti del mondo”. Certo, una finale di Wimbledon aiuta a colmare il gap, ma lo stesso discorso vale per i più giovani. O almeno così dovrebbe essere.
Massimo Sartori ricorda come Seppi abbia sempre giocato pochissimi Challenger, preferendo le qualificazioni dei tornei ATP per confrontarsi subito con l’atmosfera e l’ambiente del tour professionistico. Una scelta che pare non abbia incoraggiato i nostri migliori giovani a seguire la stessa strada. Il fatto che la primavera-estate in Italia sia costellata di tornei Challenger che non lesinano (grazie anche all’intervento economico della Federazione) wild card ai nostri giovani più promettenti, ha consigliato da Donati a Quinzi, da Sonego a Napolitano, fino a Mager, di svernare l’intero periodo giocando da Biella a Fano, da Cortina a Napoli, da Milano a Caltanissetta. Con alterne fortune ma non è questo il punto.
A parte casi specifici (Quinzi che deve riprendersi da un lungo periodo negativo e che ha appena cominciato una nuova collaborazione tecnica con Ronnie Leitgeb, o Lorenzo Sonego che forse solo quest’anno ha intuito che può diventare un buon professionista), mi ha sorpreso non veder nessun giovane azzurro provare a giocare i Challenger in Nord America sul cemento, la superficie sulla quale si distribuisce il maggior numero di punti e dove il circuito si sposta ogni anno durante il periodo estivo.
Pare che gli italiani abbiano una idiosincrasia storica a queste trasferte, da quando Adriano Panatta informò il suo (allora) coach Ion Tiriac che nemmeno la possibilità di giocarsi uno Slam come lo US Open lo avrebbe convinto ad abbandonare la Costa Smeralda, proprio nel periodo di massimo glamour e divertimento.
Ricordo anche gli sforzi di coach Leonardo Caperchi per convincere Fabio Fognini a provare l’avventura americana nel suo primo anno da pro, anche a costo di lasciar per strada i facili punti che avrebbe conquistato nei tornei challenger italiani.
Ma tutto questo in cosa si è tradotto? Che il dogma di coach Piatti (l’allenatore italiano che di gran lunga ha ottenuto i migliori risultati in carriera) è stato abbandonato e che, di fatto, i nostri migliori giovani non solo non stanno facendo sfracelli nei tornei challenger ma soprattutto non affrontano mai giocatori di classifica importante che consenta loro di fare le giuste esperienze, limare i loro limiti, capire quanto è alta l’asticella. E col rischio di restare impantanati in questo mondo dei Challenger che va abbandonato il più presto possibile.
A sostenere questa tesi, i numeri, che sono freddi ma non sbagliano, dice Maestro Tommasi. Abbiamo quindi evidenziato quanti giocatori top 50 e quanti giocatori top 100 avevano affrontato a 20 e 21 anni Fabio Fognini e Andreas Seppi (i nostri due migliori giocatori degli ultimi 30 anni) e li abbiamo paragonati a quanto sta accadendo con le nostre migliori promesse (considerando il fatto che per loro la stagione dei 21 anni deve ancora concludersi). Cominciamo.
Seppi 8 top 50 e 7 top 100 (totale 15) a 20 anni
Seppi 19 top 50 e 15 top 100 (totale 34) a 21 anni
TOTALE GENERALE: 49 MATCH
Fognini 6 top 50 e 11 top 100 (totale 17) a 20 anni
Fognini 14 top 50 e 10 top 100 (totale 24) a 21 anni
TOTALE GENERALE: 41 MATCH
Donati 1 top 50 e 6 top 100 (totale 7) a 20 anni
Donati 0 top 50 e 2 top 100 (totale 2) a 21 anni
TOTALE GENERALE: 9 MATCH
Napolitano 0 top 50 e 2 top 100 (totale 2) a 20 anni
Napolitano 0 top 50 e 5 top 100 (totale 5) a 21 anni
TOTALE GENERALE: 7 MATCH
Mager 0 top 50 e 0 top 100 (totale 0) a 20 anni
Mager 0 top 50 e 4 top 100 (totale 4) a 21 anni
Mager 0 top 50 e 2 top 100 (totale 2) a 22 anni
TOTALE GENERALE: 4 MATCH
Quinzi 0 top 50 – 2 top 100 (totale 2) a 20 anni
TOTALE GENERALE: 2 MATCH
Sonego 0 top 50 e 1 top 100 (totale 1) a 20 anni
Sonego 1 top 50 e 0 top 100 (totale 1) a 21 anni
TOTALE GENERALE: 2 MATCH
Come potete notare, non si può nemmeno accennare un paragone. Ora, il nuovo programma over 18 (ora che anche in Fit si sono accorti che la carriera dei giocatori si è allungata e che forse è il caso di seguire i migliori prospetti oltre la carriera juniores) guidato da Umberto Rianna (full time) e Giorgio Galimberti (part time) dovrebbe dare un indirizzo più sicuro alle carriere di queste giovani promesse, benché ciascuno sia seguito dal proprio coach e quindi gli interventi federali sanno più di consulenza.
Vien da chiedersi perché (quasi) nessuna delle nostre migliori promesse si affidi direttamente alla FIT e al massimo interpreti il centro di Tirrenia come una base (sostanzialmente gratuita) per gli allenamenti. Però qualcosa potrebbe cambiare col nuovo direttore tecnico perché pare scontato che tale carica non verrà rinnovata a Eduardo Infantino, che pare promesso coach del rientrante (a gennaio) Simone Bolelli, che lo vede come suo mentore (e in effetti come coach personale di giocatori, Infantino ha un curriculum di primissimo ordine).
Vi sarà una sorta di rivoluzione nel nostro centro tecnico? Si riuscirà a formare nuovi coach che per adesso hanno scarsa esperienza internazionale sul tour maggiore? Si riuscirà poi a coinvolgere i migliori coach privati a lavorare per la FIT? I quattro anni di mandato che attendono Binaghi & Co. dovranno avere questo come scopo principale (oltre a far crescere ancor di più l’audience di SuperTennis TV): perché se è vero che il fuoriclasse non esce (quasi) mai da un programma federale (che però non dovrebbe prendersi i meriti quando un giocatore o una giocatrice raggiunge un buon risultato: troppo facile), è altrettanto vero che i buoni giocatori si possono costruire. Anche in Federazione, soprattutto se questa dispone di risorse importanti.
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