Parlando con SportSenators, Andrea Gaudenzi ha rivelato quanto sia stato fondamentale ampliare i propri orizzonti e portare avanti gli studi. Marco Pedrini, ex n°294 ATP. si unisce al coro e racconta un pezzo di vita sui social: “Una volta messa da parte la racchetta, cosa vogliamo fare? E se il tennis non fosse la nostra unica passione?”

“Ho sempre dato importanza alla scuola, ricordo che fra i giovani tennisti più promettenti, al centro tecnico federale di Riano Flaminio, ero l’unico che andava al liceo scientifico pubblico e non studiavo privatamente. Ma, sono sincero, se ho continuato, dopo la scuola dell’obbligo, devo ringraziare i miei genitori che hanno insistito che mi prendessi una laurea. Così, mi sono iscritto a Giurisprudenza, a Bologna, all’inizio soprattutto per rinviare il servizio militare, ma facendo pure un paio di esami l’anno, pur prendendomela comoda e finendo in dieci anni, alla fine mi sono laureato” Parola di Andrea Gaudenzi, ex n.18 ATP, che ha rilasciato un'intensa intervista al sito SportSenators, in cui ha raccontato la sua vita durante e dopo il professionismo.
Gaudenzi è uno dei pochi tennisti italiani ad aver avuto successo sia nel tennis che nella vita professionale: “Ne sono stato contento. Perché, a un certo punto, mi sono sentito stanco del tennis. Ricordo ancora la sensazione che provai, in campo, a Kitzbuhel, contro Goellner: mi faceva addirittura piacere quando lui mi faceva il punto, non avevo più l’intimo desiderio di vincere: era il momento di smettere. Era il 2003, ricordo benissimo che giocai l’ultimo torneo a San Marino e quattro giorni dopo mi iscrissi a un Masters di Business Administration alla International University di Monaco: avevo 30 anni, ma la mattina andavo a scuola come uno studente qualsiasi, col mio motorino e lo zainetto in spalla, e restavo in classe otto ore al giorno. Così, per un anno, è stata dura, all’inizio mi sentivo molto svantaggiato rispetto agli altri in materie come matematica, statistica, finanza ed economia, ero indietro, ma mi sono sempre piaciute le sfide e alla fine sono uscito con ottimi voti, oltre ad avere imparato tante cose che la Giurisprudenza non mi aveva dato.”

BAGNO DI UMILTA’
Gaudenzi spiega perché sia così importante per un tennista cercare di aprire i propri orizzonti: “Adesso che ho tre figli che praticano il tennis penso spesso a come non sia è facile per un ex atleta integrarsi nel mondo del lavoro, a mio parere, per due problematiche fondamentali comuni a quasi tutti i paesi, esclusi gli Stati Uniti, dove invece chi fa sport, in generale, è supportato dal sistema. A 15-16 anni, quando fai uno sport agonistico, devi cominciare per forza viaggiare molto e hai meno tempo per studiare, per cui la scuola dovrebbe supportare l’atleta di livello, e non creare delle difficoltà. Inoltre, una volta chiusa l’attività, dopo aver vissuto grandi esperienze personali, dopo essere stato qualcuno, riconosciuto e coccolato, con la Mercedes che ti viene a prendere in aeroporto e l’albergo a cinque stelle, devi ricominciare completamente da zero in un mondo altrettanto competitivo come quello del lavoro. Ricordo benissimo i primi 3-4 anni, che sono stati molto duri, ho fatto tanta fatica: fare questo bagno di umiltà non è facile per nessuno e senza neanche una base accademica diventa molto difficile integrarsi. Forse è diverso per il calcio: è un mondo più vasto, ci sono più squadre e organismi, dunque esistono anche più possibilità di continuare nello stesso ambito, di riciclarsi in un altro ruolo, ma nel tennis i posti di lavoro a disposizione sono molto meno. E quindi… è meglio che i miei figli pensino alla scuola e poi allo sport: è fantastico e meraviglioso, ma non è tutta la vita. Dopo ce n’è un’altra più lunga e insidiosa.”

SCELTE DI VITA
Oggi più di allora sono tanti i ragazzini e le ragazzine che una volta terminata la scuola dell’obbligo scelgono il percorso opposto rispetto a quello fatto da Gaudenzi; molti smettono di studiare o magari scelgono scuole meno impegnative per dedicarsi interamente all’attività sportiva. Non sempre, ma spesso, si finisce con un doppio fallimento: qualche anno dopo ci si ritrova senza diploma e senza ranking. Accade perché al momento della scelta non si considerano  una serie di problemi: ad esempio, il riconoscimento dei propri limiti e la valutazione delle finanze. Molti smettono di studiare sperando di “sfondare” nel mondo del tennis e appena si accorgono di quanto costi girare il tour si vedono costretti a ridimensionare i loro sogni e di conseguenza i loro obiettivi. Possiamo però fare l’esempio di chi, nel suo piccolo, sta riuscendo nel percorso. I nomi di tennisti laureati del circuito minore che ci vengono in mente non sono poi molti, ma potremmo citarne qualcuno: Fabrizio Ornago (laureato in Fisioterapia e n° 668 ATP) che ha condiviso su Facebook l’articolo di SportSenators commentando: “La laurea è molto più di un semplice pezzo di carta. Questione di priorità e passione”, Matteo Civarolo (laureato in scienze motorie e ex n° 917 Atp), Maria Masini (n° 940 Wta che, dopo la discussione ha postato sempre su Facebook una sua foto con racchetta e pallina in una mano e tesi nell’altra e ha scritto: “Mi scuso con la tradizione, ma ho preferito la racchetta. Sono riuscita a parlare di tennis perfino sulla linea del traguardo. La mia tesi parlava di cambio di prospettive. La mia costante da sempre. Ci sono stati momenti in cui forse avrei preferito mollare, ma il panorama visto da qui è bellissimo. È stato faticoso, ma non cambierei niente di quello che ho fatto…”), Tommaso Lago (laureato in economia e n° 1111 Atp) e Marco Pedrini. Dedichiamo qualche parola in più al bresciano: dopo aver letto l’intervista a Gaudenzi ha riportato sui social un pezzo di vita che lasciamo raccontare a lui: “Non sono solito usare Facebook per condividere ed esprimere opinioni o momenti personali, ma queste parole mi hanno colpito direttamente; ci ho provato, ma non sono riuscito a leggere l’intervista in modo sereno e spassionato. Troppe cose in comune che sento ugualmente mie e che tuttora mi sguazzano dentro. Mentre leggevo l’intervista, mi sembrava di vedere coi dovuti paragoni, la mia carriera, le mie scelte, i miei frequenti dubbi e le mie difficoltà, intervallate da brevi e luminosi sprazzi di sereno. Mi considero come Andrea un tennista professionista, avendo (e per certi versi tuttora) vissuto di quello; e sono anche molto orgoglioso di aver raggiunto quel numero, 294 ATP, che alla fine, per noi tennisti, certifica la misura di quello che si è fatto in questo sport, lasciando poco spazio alle parole e alle scusanti alle quali è più semplice ricorrere. Penso che i numerosi sacrifici e gli allenamenti per alimentare questo sogno, che ci portiamo dentro da bambini incoscienti e sognatori, non siano stati troppo dissimili: certo i suoi meriti, i suoi successi e le sue capacità, sono stati di un altro spessore rispetto alle mie vittorie, collocate in un microcosmo del tennis, visibili solo a pochi intimi. E riprendendo l’intervista, una volta messa definitivamente da parte la racchetta, cosa vogliamo fare? E se il tennis non fosse la nostra unica, vera, insostituibile passione? – scrive l’ex 294 ATP su Facebook – Se lui ha avvertito la stanchezza del tennis a Kitzbuehel contro Goellner, io me ne sono reso conto in Crozia, quando persi in un Future contro tale Marco Tkalec dopo svariati match points. Ebbene, come Andrea ho scelto di laurearmi, a 25 anni ho salutato la gloria del circuito ATP e ho iniziato zaino in spalla, direzione Statale di Milano, cinque anni, di gran lunga il più vecchio dei miei compagni di corso; triennale in Scienze Politiche e magistrale in Scienze Storiche. Non avendo goduto dei suoi prize money, nel frattempo il tennis non l’ho mai abbandonato, anzi. I tornei Open nazionali e le gare a squadre in giro per l’Europa erano il mio pane quotidiano, arrivando a volte a sentirmi un mercenario del tennis. E le similitudini non sono finite: anch’io mi sono iscritto a un Master internazionale in Sport Management and Marketing con l’obiettivo e la speranza di rimanere nel mondo dello sport, ma con un’altra visuale rispetto a quella di tennista o coach. E andando fino in fondo, ho anch’io dei figli ai quali vorrei trasmettere, come evidenzia lui, quello che il tennis mi ha dato in termini di crescita umana, che considero sempre una palestra di vita incredibile. Quello che tuttavia non mi fa tornare i conti, al momento, è il lieto fine o il quieto divenire che dir si voglia, soddisfazioni e gratificazioni che magari un percorso del genere unito ad aspettative proprie, potrebbe portare. Ma niente è scontato, per fortuna direi; e tutto è comunque in divenire, panta rei. Purtroppo spesso e in molti casi, senza certe conoscenze e determinati contatti, c’è il rischio di trovare porte sbarrate e persone, magari pure del tuo stesso background, mute o insensibili di fronte alla tua voglia e alla tua preparazione. Come, al contrario, queste possono trasformarsi in facili e comodi passepartout, a scapito del merito oggettivo, come d’altra parte se ne sente spesso. Provo sincera ammirazione e stima per Andrea per quel che ha fatto, mi auguro che le sue parole possano essere un monito per i ragazzi che si approcciano a questo sport abbagliati dalla luce folgorante dei campioni in TV e chissà anche dalle furbe promesse di sogni, venduti da dubbi mestieranti del settore. E infine sono d’accordissimo con lui sulla possibilità di andare a studiare in una buona università degli States con una borsa di studio, magari proprio grazie al tennis; erano altri tempi, ma tornassi indietro me ne andrei senza pensarci troppo di là dell’Atlantico, sfruttando il tennis come ulteriore mezzo per migliorarmi.”