Ho conosciuto Richard Gasquet (o almeno per quanto una mezz’oretta di intervista si possa considerare una conoscenza) nel maggio del 2005, in una saletta di Roland Garros. Il primo ricordo è quello di un ragazzo con problematiche ben maggiori rispetto a quelle tipiche adolescenziali. Un solerte manager della comunicazione dell’ATP si raccomandò di non far caso ai suoi tic nervosi, di non lamentarsi se il tono di voce avrebbe reso quasi impossibile comprendere le risposte e, in senso assoluto, se l’intervista fosse risultata modesta, se non proprio una fesseria. In effetti, per venticinque minuti, Gasquet guardò fuori dalla finestra, quasi a cercare aiuto ed evitando accuratamente ogni possibile contatto visivo col suo interlocutore.
Gasquet lo avevo visto, nelle vesti di giocatore, qualche anno prima, nel 2002: stavo appollaiato sul centrale del Country Club di Monte Carlo a caccia di un filo di abbronzatura, mentre lui maltrattava un arrotino argentino, Franco Squillari: normale amministrazione, non fosse che il francesino aveva 15 anni. Seduti in tribuna c’erano anche il suo coetaneo, Rafael Nadal Parera e lo zio Toni, che all’epoca chiamavamo meno familiarmente Antonio. Tre anni dopo, avremmo ammirato Gasquet su quello stesso campo, battere al tie-break del terzo set l’allora numero uno del mondo, Roger Federer. Erano i quarti di finale e ricordo perfettamente il balzo che mi fece travolgere il vicino di seggiolino quando sul match point scaricò un rovescio che aveva poco di umano e che fortunatamente YouTube ha reso eterno. Il giorno dopo perse da Nadal in tre set.
A 10 anni di distanza, l’occasione di incontrarlo nuovamente mi viene offerta dal suo sponsor tecnico, Le Coq Sportif. Mi chiamano chiedendomi se avrei piacere a scambiare quattro chiacchiere con lui. “Se poi ti va – aggiungono con tipica nonchalance francese – puoi anche palleggiarci insieme”, un po’ come chiederti se ti va di uscire a cena con Naomi Campbell. E’ un Gasquet ben diverso, quello che incontro nel bellissimo Racing Club di Parigi. Non che fosse sparito dalla nostra vista in questo decennio: ha fatto semifinale a Wimbledon e US Open, ha vinto 12 tornei ATP e si è qualificato due volte al Masters di fine anno. Però la sensazione è quella di aver davanti un ragazzo decisamente più maturo, come è normale che sia a 29 anni e come ha confermato una meravigliosa intervista realizzata dal magazine Society, edito da quei geni di SoFoot, una delle poche riviste di calcio capaci di andare oltre le balle del calciomercato e i pettegolezzi sulle nuove Wags di Cristiano Ronaldo.
Per la prima volta, ha deciso di aprirsi al suo pubblico, di parlare di politica e omosessualità, della vita nel circuito e delle sue fobie dopo la squalifica per cocaina. Senza filtri, senza consiglieri che ti suggeriscono di essere banale così non ci saranno scandali. Ci assicuriamo solo che tutto quello che ha dichiarato corrisponda a verità: “E’ tutto vero, tranne qualche sciocchezza contro Yannick Noah, Mi ha sempre aiutato, come potrei criticarlo?”.
Per il resto, vale la pena ascoltarlo.
Sulla vita nel circuito pro: “Non ho mai visto la mezzanotte del 31 dicembre perché ho sempre giocato il giorno dopo. E il mio compleanno lo festeggio a Wimbledon. Certi calciatori mi dicono che sono stanche di essere sempre in viaggio, ma per noi tennisti è anche peggio. Però è la nostra vita e ormai non ci faccio più caso. Di giorno mi alleno, la sera vado al ristorante più vicino all’hotel e rientro subito dopo. E’una routine e non c’è un giocatore che ha il tempo o la voglia di andare a visitare la città. Sono nato in un piccolo paesino della Francia e mai avrei immaginato di girare il mondo per giocare nei grandi stadi davanti a migliaia di persone. Ma di sicuro, appena mi sarò ritirato, starò un po’ lontano dagli aerei.
Sulle tragedie aeree: “Il volo da Kuala Lumpur a Pechino della Malaysian di mezzanotte e dieci che è precipitato, l’ho preso tre volte. Come fai a non pensarci?”.
Sulla copertina di Tennis Magazine a 9 anni: “Ci sono giocatori che pensavano di diventare numeri 1 uno del mondo da quando erano piccolissimi. Io invece adoravo semplicemente giocare a tennis. Per questo, quando a 16 anni sono diventato così forte, così giovane, per me è stato uno choc. E anche per i miei genitori. Poco tempo fa riparlavamo di quella copertina su Tennis Magazine: avevo 9 anni, non ci rendevamo conto di quello che poteva significare. Noi, del Sud della Francia, non facciamo tante domande: mi piaceva l’idea e l’ho fatta. Ma adesso, se un ragazzino di 9 anni mi chiedesse un parere, gli direi di lasciar perdere”.
Sui genitori molto protettivi (si racconta che una volta la madre gli chiese di abbandonare il campo perché faceva troppo caldo): “ Si è scritto tanto su di me, e anche tante fesserie. Questa, per esempio, è una grande fesseria. Ho giocato un sacco di match con un caldo infernale ed era proprio mia madre che mi diceva di restare in campo! Ma queste situazioni sono tipiche del tennis francese che non accetta volentieri la presenza di un padre accanto a suo figlio, un microcosmo dove tutti parlano per non dire niente”.
Sui web commenti: “Una volta leggevo i commenti sul sito dell’Equipe e talvolta mi chiedevo come fosse possibile scrivere cose del genere. Ora lo evito e comunque, col passare degli anni, certe cose scivolano via”.
Sulle aspettative della gente: “A 15 anni mi chiamavano Il Piccolo Mozart e quindi, se poi non vinci Roland Garros, la tua carriera viene considerata un fallimento. Mi hanno sempre dipinto come il prossimo numero uno del mondo, quindi pare che io non abbia il diritto di essere stato il numero 7. Nella testa della gente, pare un risultato normale.
Sul sogno Slam: “Ho sempre sognato di vincere uno Slam ma non sono mai stato sicuro di farcela. In realtà, non ci sono riuscito perché non ero mai abbastanza forte. Ho fatto una semifinale a Wimbledon ma Federer era di un altro livello; e anche due anni fa, in semifinale allo US Open, non avevo alcuna chance di battere Nadal”.
Sulla vita senza il tennis: “A 18 anni ho vissuto una stagione molto complicata. Al Challenger del Bronx, ho subìto un break al terzo set contro Julien Jeanpierre, ho spaccato una racchetta, preso un punto di penalità e perso la partita. Una settimana dopo, nelle qualificazione dello US Open, ho lanciato di nuovo la racchetta per terra ed è rimbalzata contro un giudice di linea: squalificato. Due belle settimane di merda! Ho pure pensato di smettere di giocare. Volevo chiedere ad Arnaud Lagardère di fare uno stage in una qualunque delle sue attività. Ma senza il tennis, la mia vita non sarebbe niente. Ci vivo dentro da quando avevo quattro anni e non posso immaginare la mia vita senza. Nemmeno oggi.
Su Rafael Nadal: “Nella vita quotidiana, Rafa è l’antitesi della star. E’ un ragazzo semplice e la sua vita è regolata dal tennis. Mi ricordo di aver giocato con lui tutto un martedì; in tarda serata è partito per Barcellona per un impegno. Ha finito alle 2 del mattino, ha preso un volo alle 5, ha dormito tre ore e alle 10 e mezza si è presentato in campo per quattro ore di allenamento. Non si ferma mai, è una macchina. Bisogna saper soffrire per giocare un match di cinque set e poi rifarlo due giorni dopo. Ma non ho mai visto nessuno saper soffrire come Nadal.
Sul confronto con Rafael Nadal: “Certo, non ho il suo fisico. Io ho sempre pensato più alla tecnica e meno al fisico. Anche quando sono arrivato al settimo posto della classifica mondiale, non frequentavo mai una palestra. Giocavo tanto, anche quattro ore al giorno, senza problemi. Ma sempre sul campo.
Sull’autostima: “Mi è sempre mancata un po’ di autostima. Ci sono giocatori come Djokovic o Federer che hanno una fiducia in loro stessi ben superiore alla mia. Forse è quello che serve per diventare un grande, grande, grande giocatore. E io non sono a quel livello. Sono un buon giocatore ma non ho mai vinto uno Slam. Per farcela bisogna essere un po’ sbruffoni, ma in Francia quasi non te lo permettono, contrariamente alla mentalità americana. Nel tennis, come dice Noah, non pensare troppo può essere un vantaggio. Dopotutto, se rifletti mentre stai giocando una finale di Coppa Davis davanti a 27.000 persone, è difficile non bloccarsi”.
Sul dopo Federer-Nadal: “Non so cosa accadrà quando non ci saranno più Federer e Nadal… Ci sono giovani giocatori che stanno crescendo come Raonic, Nishikori, Dimitrov ma, per dire, Connors e McEnroe avevano un altro carisma. Mi sarebbe piaciuto giocare a quell’epoca: il fisico era meno importante, i media non erano così assillanti, i giocatori si prendevano meno sul serio. Adesso tutto è calcolato: se dici qualcosa di sbagliato, prendi un punto di penalità. Un punto di penalità si trasforma in una multa, e una multa ti costa dei bei soldi. Tutto è concepito perché tu non dica nulla di diverso da una banalità”.
Su chi è bello veder giocare: “Mi piace guardare i match di Monfils e Tsonga, oppure se c’è Federer contro Nadal. Già Djokovic contro Murray non mi fa emozionare: scambiano destra-sinistra-destra senza creatività: preferisco guardare il calcio, soprattutto la mia squadra del cuore, il PSG”.
Sulla squalifica per uso di cocaina: “E’ stato orribile, mi sono fatto massacrare. Ogni volta che accendevo la tv vedevo il mio nome, poi ho comprato l’Equipe Magazine e ho visto quel titolo: Miami Vice… Da quel momento, ho cominciato a controllare tutto, pure che le bottigliette di Coca Cola arrivassero sempre ben chiuse: pensavo che qualcuno potesse infilarci dentro qualcosa di proibito. Andavo al ristorante e un amico ordinava il mio piatto e io il suo. Una paranoia che è durata una stagione intera, fino al principio del 2010.
Su come ha reagito alla positività alla cocaina: “Avevo appena perso al torneo di Roma ed ero all’aeroporto quando un tizio mi chiamò poco prima di prendere il volo. Parlava inglese ma con un accento strano… adesso capirei anche, ma all’epoca… Presi il suo numero e lo passai al mio manager. Lo chiamò appena atterrati e mi disse: ‘Richard, sei stato trovato positivo ad un controllo antidoping: cocaina’. Al principio quasi non capivo, credevo ad un errore. E mi dicevo che comunque era meglio la cocaina dell’EPO, che è più da truffatori. Fosse stato EPO, sportivamente sarei morto lì. Chiamai subito mia madre e ricordo perfettamente il giorno in cui la notizia divenne pubblica. Era un sabato, stavo a Saint Cloud, a casa del mio ex coach, Eric Deblicker. Una bomba. Si alzò un polverone…
Sulla (falsa) notizia che fosse l’amante di Arnaud Lagardère: “Non capisco come possano uscire cavolate di questo genere proprio su di me, che ho un comportamento molto normale. Se ci sono due mondi che mi sono veramente distanti sono quelli della droga e dell’omosessualità”.
Sulle relazioni sentimentali: “Fino ai 25 anni non ho mai voluto relazioni serie. Ora, a 29 anni, i pensieri sono diversi. Ma non è facile, guarda Federer: deve girare con quattro bambini e la tata sempre dietro. E trovare una ragazza che ci segua e ci comprenda, noi e il nostro umore, nella vittoria e nella sconfitta, non è per nulla semplice.
Su Nicolas Sarkozy: “Voterò sempre Sarkozy, per ideologia e per amicizia: ci siamo sentiti spesso, abbiamo giocato anche qualche volta insieme”.
Sulla residenza in Svizzera: “Se è per le tasse? Certo: è un dibattito senza fine ma non voglio perderci troppo tempo. Non ho lezioni da dare, ma nemmeno da ricevere. E comunque ci sono diversi giocatori francesi, anche di Coppa Davis, che votano a sinistra e poi hanno la residenza in Svizzera”.
Su come sarà ricordato: “Come qualcuno che ha fatto parlare molto di sé, sin da quando era ragazzino. E col quale non hanno mai avuto mezze misure. Ogni vittoria è stata osannata, ogni sconfitta drammatizzata. Ma nello sport ho capito che gli eccessi di giudizio sono la normalità. Io stesso, che pure lo sport dovrei conoscerlo bene, quando guardo un match di calcio mi sorprendo di quello che posso dire di un giocatore. Lo sport provoca isteria”.
Intanto, al Racing Club comincia a imbrunire. Gasquet è riuscito a far palleggiare una mezza dozzina di giornalisti, sempre tenendosi il fianco, in quella che è una sua postura tipica (osservate la stretta di mano alla fine di questo video. Il tempo di un selfie con Alizé Lim, fidanzata di Jeremy Chardy, altra testimonial Le Coq Sportif (in realtà più apprezzata per la sua avvenenza che per i suoi risultati agonistici), e poi c’è ancora il tempo per parlare di tennis: “E’ troppo facile dire che se Cilic ha vinto uno Slam, allora ci possono riuscire in tanti. Serve un buon tabellone e due settimane magiche. Tutto è possibile ma fin qui, Cilic è stato l’eccezione”.
Quindi diventa perfino audace quando gli ricordo che secondo Goran Ivanisevic il peggior infortunio per un tennista è una donna (“Eh, mi piacerebbe fare cambio con lui! Io ho sofferto di tanti infortuni ma non di questo genere. Infortunarmi con una donna non sarebbe male. E sia chiaro, non sul campo da tennis!”), mentre si infastidisce se gli si ricorda che il pubblico francese è sempre insoddisfatto dei risultati ottenuti da lui e dai suoi compagni: “Che ci posso fare? Io, Tsonga, Monfils, Simon, siamo tutti arrivati nella top 10, un risultato straordinario che invece pare non sia nulla di speciale. Però ho imparato ad accettare certe critiche. Tutti si aspettano di rivivere quel giorno del 1983, la vittoria di Noah a Roland Garros. L’ho rivista anch’io: il match point… una giornata fantastica per il tennis francese. Io poi ho un rapporto super con Yannick: mi ha sempre aiutato e in qualunque momento avessi bisogno, so di poterlo chiamare per un consiglio”.
E se invece fosse lui a dover consigliare un giovane appassionato? “Giocare a tennis è un’ottima scuola di vita: ti insegna a soffrire da solo, a rispettare l’avversario, a trovare una soluzione per vincere. Però emergere a livello pro non è facile. Mi alleno con ragazzi che sono 400 al mondo: giocano bene, ma non si guadagnano da vivere”. Anche se resta l’amore per il gioco: “Quello che ha scritto Agassi nel suo libro mi ha davvero sorpreso. Come si può odiare questo sport? Io lo adoro, come Federer, per esempio. Quando dovrò smettere mi mancherà l’adrenalina, le sensazioni sul campo, il pubblico. Quando sei infortunato e non puoi competere ti accorgi di quanto sia importante il tennis. Va bene passare due, tre settimane a casa in famiglia e con gli amici, ma poi il tennis mi manca”.
E’ tempo di tornare. A Charles de Gaulle, in attesa dell’imbarco, la tentazione è troppo forte. Ci si attacca a YouTube, si rivedono le immagini da Tarbes, di quei due ragazzini che si danno battaglia sul campo: Richard Gasquet vs. Rafael Nadal, indica una grafica approssimativa. E poi quegli imperdibili 8 minuti e 35 secondi di puro orgasmo che riprendono 70 delle centinaia di rovesci vincenti giocati senza apparente sforzo da un talento che non ha mai trovato la strada dell’Immortalità tennistica ma che resta un piacere per i guardoni del gioco. Fin quando avrà ancora voglia di continuare. Poi… “non mi vedo come coach. Potrei commentare alla tv ma non mi piacerebbe sparare contro altri giocatori. E senza essere critici non si fa audience. Vedo ex giocatori che hanno bisogno di essere sotto i riflettori, che vivono attraverso noi. Io non vorrei dire fesserie e per non farlo, non devi commentare. Quindi, direi due anni di golf, un po’ di calcio da qualche parte vicino a Béziers e poi… non mi vedrete più e mi dimenticherete”.
E finalmente, anche il piccolo Mozart del Tennis, troverà pace.
(Articolo pubblicato su TennisBest Magazine di giugno 2015)
Gasquet infiamma Parigi: è davvero il dono del cielo?
IL PERSONAGGIO – L’aveva definito così la rivista francese Tennis Magazine quando l’ha messo in copertina a 9 anni. Doveva essere il Mozart del tennis, è diventato “solo” un top 10. Un ragazzo scioccato dalle aspettative della gente, che finalmente ha deciso di aprirsi al mondo. parlando di omosessualità, politica, la squalifica per cocaina. E dell’amore per il tennis.