Il curioso racconto di Rob Johnson. Appassionato di tennis, aveva deciso di mollare tutto per fare il maestro. Ma poi ha scoperto che…
Quello di maestro di tennis non è sempre un lavoro piacevole

TennisBest – 4 giugno 2012

 
Il ruolo di maestro di tennis è affascinante, crea fascino e leggende. Ma non sempre è oro tutto ciò che luccica. Questo è il racconto del giornalista Rob Johnson: spinto dalla passione per il tennis, decise di mollare tutto per avviare una carriera da istruttore. Ma sono bastati 4 anni per fargli lasciar perdere e tornare all’amore di sempre: la penna. Un racconto da non perdere.


Nella mia cantina c’è una scatola di cui non ho mai parlato.
Tra una decorazione di Halloween e una cassa di Lego, ricordo dell’infanzia di mio figlio, il pacco più grande rimanda a uno dei ricordi più faticosi, frustranti e deludenti della mia vita. Al suo interno ci sono un po’ di t-shirt con scritto “Coach Rob’s EZ Tennis Academy”. Mi è capitato di scrivere di persone che mollano tutto per intraprendere un lavoro da sogno come la gestione di un bed and breakfast o di un ristorante. Anch’io avevo un sogno del genere: insegnare ad altre persone un gioco che amo. Diversi anni fa ho deciso di smettere i panni del giornalista di moda.
Ma proprio come gli altri, mi sono svegliato dal mio sogno. Ben lontano dall’essere un lavoro rilassante, quello del maestro di tennis è un impegno che ti porta a trascorrere lunghe ore con bambini annoiati, fare manutenzione dei campi, sopportare uragani e ondate di calore che spesso costano i clienti. Una volta ho dovuto scacciare un serpente con la racchetta. Alla fine ho dovuto affrontare alcune dure verità sul sottoscritto e su quello che sentivo su questo sport.
 
Tutto è iniziato nei primi anni 2000. Vivevo ad Orlando, in Florida, e lavoravo in un giornale. Ero già stato licenziato una volta: non volevo che accadesse di nuovo, soprattutto con mio figlio impegnato alle scuole medie. Così ho iniziato a pensare al tennis. In passato, lavorando in redazioni a Chicago e Houston, avevo preso ad amare questo sport. Mi perdevo sul campo da tennis, mi capitava di giocare cinque volte a settimana. Esponevo con orgoglio i trofei vinti nei tornei amatoriali, seguivo religiosamente i match alla TV e spendevo centinaia di dollari in attrezzatura. Il mio armadio aveva più pantaloncini da tennis che camice. Non era stato solo il gioco ad attirarmi. Mi piaceva la cultura del tennis, esaltante e affascinante allo stesso tempo. Insegnare il gioco, pensavo, mi avrebbe avvicinato ancora di più a quel mondo. Inoltre mi sembrava di aver individuato un business redditizio a cui nessuno aveva pensato. Gli hotel di Orlando abbondavano di campi da tennis, ma soltanto in pochi i maestri lavoravano a tempo pieno. La mia idea era creare un servizio di questo genere: Gli alberghi avrebbero potuto segnalarmi come istruttore e io avrei usato i loro campi per le lezioni. Non avrei dovuto dare la caccia ai clienti né tantomeno investire nella costruzione di campi nuovi. Certamente avevo previsto un abbassamento della stipendio, soprattutto nella fase iniziale. Ma avevo un po’ di soldi in banca, senza contare l’amore per il lavoro.
 
Nel 2001, mentre ottenevo la certificazione di istruttore, ho parlato con un paio di gestori di hotel. Erano molto contenti di farmi usare i loro campi. I clienti avrebbero pagato 50 dollari l’ora e avrei lasciato il 10% all’hotel. Inoltre avrei provveduto a tenere puliti i campi e a svolgere attività di manutenzione. Nel maggio di quell’anno ho lasciato la redazione e mi sono lanciato in questa attività durante l’estate. Avevo raggiunto accordi con cinque hotel. Pieno d’orgoglio, avevo preparato i biglietti da visita e investito 500 dollari per 100 t-shirt da donare ai clienti abituali. La mia prima cliente fu la moglie di un partecipante ad un convegno. Sembrava più interessata ai consigli sulla buona tavola che a una guida per il tennis, ma sembrava anche soddisfatta della lezione. Avevo la sensazione che la mia prima ora come istruttore fosse stata un successo. Ma la luce è sbiadita con il passare del tempo, quando trovavo allievi esattamente come lei: turisti che vedevano il tennis esattamente come una gita in un parco tematico. Cercare di scatenare l’entusiasmo in turisti indifferenti era un compito frustrante, che ha colpito duramente la mia passione per il gioco e l’interesse per il business.
 
I bambini erano una sfida particolare. I genitori me li affidavano soprattutto quando avevano voglia di una pausa. E loro avevano la sensazione di essere stati strappati da Walt Disney World o gli Universal Studios per essere infilati in una prigione virtuale. Capitava che si tirassero le palline oppure che chiedessero di andare in bagno soltanto per uscire dal campo. Non potevo mandarli da soli per ragioni di sicurezza, così dovevo mandare un altro bambino insieme a loro nella lobby dell’hotel o nell’area SPA. Altrimenti dovevo bloccare la lezione per accompagnarli io stesso. La macchina lanciapalle divenne uno strumento pericoloso. Alcuni bambini non avevano resistito ad avvicinarsi troppo allo strumento, con conseguenze che potete immaginare. Era ancora più difficile tenerli concentrati quando si presentava la fauna locale. Una volta un enorme scarabeo volante li spaventò a morte mentre io lo prendevo a calci in una siepe. Poi capitò che un serpente non velenoso fece irruzione in campo durante una lezione. Mi sono preso un applauso quando l’ho preso sul mio piatto corde e l’ho fatto ritirare dietro agli alberi. Per quanto distratti e annoiati, i bambini si presentavano. Non era lo stesso per gli adulti. E’ capitato spesso che diverse lezioni mattutine fossero cancellate all’ultimo perché avevano fatto tardi la sera prima. Le lezioni pomeridiane e serali, invece, saltavano a causa del caldo umido della Florida centrale. Intere giornate di lezioni furono spazzate via dalle previsioni meteorologiche.
 
Per quanto fosse stressante lottare contro l’apatia degli allievi, il lato fisico era ancora peggiore. Uragani e tempeste tropicali hanno messo a dura prova i campi, e passavo ore a ripulirli da muschi e rami. Inoltre i campi avevano bisogno di un costante rastrellamento perché l’acqua colava dal terreno paludoso…e il cemento a poco a poco affondava nel pantano. Nell’agosto del 2005 il mio atteggiamento verso il tennis era totalmente cambiato. Le mie competenze si erano consumate, così come il mio atteggiamento, anche perché avevo poco tempo per giocare tra una lezione e un’opera di manutenzione. Avevo ancora un profitto ma avevo perso energie, iniziative e buon umore. E così iniziai a riflettere. La mia passione per il tennis era superficiale, un’appendice alla mia vita da giornalista, e io l’avevo scambiata per qualcosa di più. Insegnare tennis era come andare a vivere con qualcuno con cui eri stato fidanzato e poi scoprire che non lo sopportavi. Quando mi hanno offerto un altro lavoro l’ho preso al volo. Adesso capisco che il mio lavoro da sogno deve avere impegno e tensione creativa. Preferisco essere sgridato da un direttore per la qualità di un mio articolo piuttosto che essere ignorato da un ragazzo a cui non importa niente del tennis. Adesso gioco a tennis una-due volte a settimana e non ho mai raccontato ai miei compagni la mia esperienza da maestro. Così come le mie t-shirts “Coach Rob” hanno un valore fondamentale: se mai mi venisse voglia di avviare un’attività del genere, uno sguardo su di loro dovrebbe bastare a farmi tornare sui miei passi.