AMATISSIMA DAGLI APPASSIONATI ITALIANI AL PUNTO DA RIBATTEZZARE GABYLANDIA IL FORO ITALICO, LA CAMPIONESSA ARGENTINA HA VINTO MENO DI QUEL CHE IL SUO TALENTO LE AVREBBE PERMESSO. MA, A SUO MODO, RESTA UN PERSONAGGIO UNICO

Vero è che, anni fa, mandò i documenti e ottenne la cittadinanza italiana perché il bisnonno paterno era marchigiano e aveva lasciato l’Italia a fine ‘800 per cercare fortuna in Argentina. Ma Gabriela Sabatini è stata adottata dal tennis italiano, e da qualche milione di appassionati (soprattutto) di sesso maschile dai 14 anni in su, anche senza carte bollate: perché pareva una dea greca. Il suo tennis sembrava costruito in un atelier: il servizio era una spintarella alla palla, ma il gesto riprendeva alla perfezione la trophy position che per anni è stata il logo dell’ATP Tour. Il dritto, magari, risentiva del sangue argentino, era tanto carico di spin, un po’ troppo. A volte colpiva con il piede sinistro per aria, col peso del corpo dietro le spalle e perdeva in spinta. Ma erano gli anni Ottanta, i primi Novanta: un peccato perdonabile. E comunque riusciva a rimanere aggraziato, senza gli strappi forzuti di Guillermo Vilas: era un’arrotata gentile. Il rovescio, beh, un colpo che più glamour non poteva essere: top, piatto, col taglio sotto, schiaffo e carezza, Gaby sapeva fare tutto. Con una compostezza, un’eleganza che stregavano. E quell’urletto, così lontano dalle grida stridule delle “ova” moderne, era un sospiro di fatica dal timbro androgino, tanto conturbante da farsi richiamo sessuale. Gabriela era bella, bellissima: un fisico tonico ma in gemellaggio onesto con la femminilità, alta il giusto, morbida quanto bastava. L’eclettico intellettuale australiano Clive James, più che i fotografi assiepati a bordocampo in attesa che la maglietta aderisse alla pelle, centrò alla perfezione quel quid che rendeva la Sabatini più che bella, più che sexy, più che – lei che al Foro Italico diventò una di famiglia – volgarmente fata o bona. Leggiamo questi versi liberi: «Bring me the sweat of Gabriela Sabatini / For I know it tastes as pure as Malvern water, / Though laced with bright bubbles like the aqua minerale / That melted the kidney stones of Michelangelo / As sunlight the snow in spring». Portatemi il sudore di Gabriela Sabatini, perché so avere il sapore puro della fonte Malvern. Frizzante e miracoloso come l’acqua minerale che sciolse i calcoli di Michelangelo. Sembra un’ode sudaticcia e appiccicosa di un fan affetto da turbe solitamente vergognose da confessare.

Eppure, lo sappia chi era troppo giovane per esserci, il sole di Roma baciava Gaby apposta finché, da metà del primo set, sotto le magliette firmate da Sergio Tacchini iniziava a comparire ciò che tutti sognavano. Se sbracciava di rovescio dopo l’ora di gioco, il non-vedo diventava vedo-tutto per un istante. Sufficiente per giocare di immaginazione con un’impossibile prosecuzione: una cena romantica a Trastevere, una notte di maggio da ricordare per la vita. Non era cosa: Gabriela veniva seguita come un’ombra dal fratello, un colossale omone dallo sguardo più efficace di una barriera. Avvicinati e ti corico. Ad abbattere le distanze era riuscito un tennista italiano dal curriculum modesto ma ricco di altre qualità, Eugenio Rossi, che la frequentò per una stagione con la scusa di allenarla. Ovviamente consapevole della sua aura, sempre curata per dare risalto alla sua dolce bellezza, Gaby era una ragazza introversa ed emotiva: vinse tantissimo solo dove si sentiva a casa, come agli Internazionali d’Italia; a Boca Raton, perché lì aveva messo su casa e si allenava con il fido coach Carlos Kirmayr. Avrebbe potuto, dovuto aumentare la collezione con qualche pezzo di Slam, invece si fermò a un unico titolo, lo US Open 1990. Quell’anno si dimenticò di aver paura di Steffi Graf e la batté in finale, in una rivalità simile alle sfide di Federer con Nadal: per ogni match vinto da Gaby, l’altra ne portava via due. La finale di Wimbledon del 1991, per esempio, grida vendetta: Steffi era cotta e da mangiare, in quel terzo set, ma miss Sabatini ebbe paura di diventare la più forte al mondo. Nell’anno precedente, dopo una vita di sberle, aveva imparato a gestire la potenza della sua rivale e l’aveva sconfitta cinque volte di fila. Una motivazione del suo essere stata grande ma non –issima risiede senz’altro in fräulein Graf, che la deprimeva con la forza e l’abitudine superiore alla vittoria; un’altra, nel suo ritrovarsi irrisolta e ombrosa, tanto da aver confessato di recente di aver perso molte volte in semifinale, soprattutto da giovane, perché convinta di poter sfuggire all’inseguimento feroce della stampa. Stabilendo un buon compromesso tra successo, mistero e discrezione. Chissà se è vero. Gabriela non fu la migliore, eppure resta unica.