Rampollo di una famiglia di sportivi e imprenditori, tosto sotto l’apparenza rilassata, Taylor è il primo americano in finale agli Us Open dal 2006. E vuole fare gli Usa grandi di nuovo nel tennis
foto Ray Giubilo
In ‘Levels of the Game’, capolavoro della letteratura tennistica in chiave sociologica, John McPhee ha raccontato i conflitti dell’America di allora attraverso la semifinale degli Us Open del 1968 giocata da Clark Graebner, figlio di un dentista della middle-class ‘wasp’, e il nero Arthur Ashe, ancora dilettante, apertamente democratico e figlio di una Virginia in cui la discriminazione era ancora molto viva, che era convinto che l’avversario giocasse un tennis ‘rigido e compattamente repubblicano’. Nel 1968 a vincere la semifinale, e poi il suo primo titolo Slam in finale contro Tom Okker, però il nero Ashe, che da dilettante non potè neppure incassare il montepremi, ma destinato a trasformarsi in guru e modello non solo per gli yankee, e che oggi dà il nome al centrale di Flushing. Stavolta la storia si è rovesciata.
Taylor Fritz, l’avversario di stanotte di Jannik Sinner, il primo americano capace di raggiungere la finale degli Us Open dal 2006, è la faccia ricca dell’America del tennis che quest’anno a New York ha stravinto vinto la lotta di classe contro gli Usa più popolari, piccolo borghesi o proletari, e soprattutto neri. Come Jessica Pegula, finalista nel femminile, figlia di Terry, il 378esimo uomo più ricco del mondo (petroliere, proprietario di franchigie di hockey e footbal, patrimonio stimato 7.7 miliardi di dollari), o la semifinalista Emma Navarro, figlia di un altro ‘billionaire’, Frank Navarro, ex giocatore di football e banchiere che ha fatto il grano comprando il debito nazionale degli States. Non sappiamo se Taylor sia repubblicano o democratico, ma di sicuro, senza scomodare politica o sociologia, il suo slogan tennistico assomiglia a quello di Trump: Make America Great Again
Katy May, la madre di Fritz, è nipote e pronipote dei fondatori della più popolare catena di grandi magazzini americani (il gruppo Federated, che comprende Macy’s e Bloomingdales). E’ stata un’ottima tennista, numero 10 del mondo nel 1977, e pure lo zio paterno, Harry, ha giocato a buon livello, mentre zia Laura, nuotatrice, ha fatto parte della staffetta 4×400 stile libero femminile Usa che ha ottenuto un record mondiale.
Taylor cresce nel ranch di famiglia a Rancho Mirage, sobborgo danaroso di San Diego dove abitano anche Tiger Woods e Arnold Schwarzenegger. Campo privato, dna perfetto per un atleta (193 centimetri, 86 chili), ereditato insieme al patrimonio di famiglia, baby Fritz all’inizio si affida a mamma Katy e a papà Guy, coach professionista che prima di lui ha seguito anche Coco Vandeveghe, altra rampolla dell’aristocrazia sportiva made in Usa.
Nel 2014 arriva in semifinale a di Wimbledon under 18, nel 2015 perde la finale del Roland Garros e vince quella degli Us Open, entrambe contro Tommy Paul, e a fine anno è n. 1 del ranking giovanile mondiale. Insomma un predestinato dal servizio micidiale, con un ottimo rovescio a due mani e grande senso della rete. Il destino gli sorride, anche perché Taylor è bello come un attore di Hollywood.
I primi anni nel Tour dei grandi, però, non sono però tutti un red carpet. Piccoli e grandi infortuni, un matrimonio precoce (aveva 18 anni) e rapidamente naufragato con la collega Raquel Pedraza (che gli ha dato un figlio, Jordan, nato nel 2017), parecchie delusioni sul campo nonostante la guida di coach importanti come David Nainkin e Paul Annacone, ex di Federer, ora affiancato dall’altro ex pro Michael Russell. Nel 2022, finalmente la svolta. A Indian Wells, due passi da casa, Taylor vince il suo primo Masters 1000 (battendo Nadal in semifinale) e la sua carriera esce dal limbo degli incompiuti anche grazie agli altri successi a Eastbourne, sull’erba, e a Tokyo al coperto.
Fritz, smagato, nel 2023 trionfa a Delray Beach e Atlanta e scala la classifica, entrando fra i top 5 Atp, primo americano dai tempi di Andy Roddick. Quest’anno si ripete a Delray Beach e a Eastbourne, a Parigi si mette al collo il bronzo olimpico di doppio insieme al vecchio amico Tommy Paul. Anche Frances Tiafoe, battuto venerdì in un derby americano pieno di sogni e di nervi fa parte del ‘Brat pack’, di una generazione di ragazzi di metà che si frequentano e puntano in alto, anche Big Foe è di estrazione sociale decisamente diversa: figlio di un carpentiere immigrato dalla Sierra leone e riconvertito in custode del Junior Tennis Champion Centere a College Park, Maryland, ha iniziato a giocare con le racchette usate che gli prestavano gli amici più ricchi.
«E’ stata una partita pazzesca», racconta Taylor, ragazzo riservato ma fidanzato alla molto appariscente influencer Morgan Riddle, apparentemente malinconico e poco grintoso ma sotto sotto tenace e resiliente. «Ho dovuto reggere la pressione che mi metteva Frances e aspettare che passasse il peggio per rimontare. È stata dura mentalmente, tutti e due eravamo molto tesi. Di solito Frances mi prende in giro per le mie volée, dice che sono brutte, così dopo un punto a rete l’ho guardato e ho provato a sorridere, ma lui era serissimo: questa è la tensione degli Slam».
Comprensibile, specie dopo una carestia così lunga per il tennis maschile americano, che, senza scomodare i mitici anni ’50 e ’60 di Kramer, Trabert & Co., dopo le vacche grasse dell’epoca di McEnroe e Connors e poi di Agassi e Sampras, con la coda minore di Roddick – ultimo vincitore di casa a New York nel 2003, finalista nel 2006 – ha vissuto la più lunga astinenza della sua storia.
«Questa finale è il sogno di una vita, non mi rendo ancora bene conto di averlo realizzato. So che non sarò teso come in semifinale Frances, e che quando gioco bene posso battere chiunque. Con Frances avevo vinto 6 volte su 7, con Jannik sarà diverso, giocherò da sfavorito. Ma contro di lui mi ho sempre fatto bene. L’ultima volta ho perso in 3 set a Indian Wells e in totale siamo 1-1 (Taylor si era imposto nel 2021, sempre a Indian Wells, in due set, ndr). Per L’America è una grande cosa, penso che ora tutti capiscano che stiamo provando a vincere uno Slam. Siamo una generazione di ottimi giocatori, stiamo crescendo, la speranza è che dietro a noi anche altri americani inizino ad avere fiducia, a pensare che possono farcela. Per me, è solo l’inizio».