Classe 1909, il suo nome è legato oltre che alle sue imprese sportive al marchio di abbigliamento che porta il suo nome e che ha come rifermento una coroncina di alloro cucita sugli abiti…

di Claudio Calza
– foto Archivio Storico Tennis Italiano

Con un fisico così, Fred Perry avrebbe potuto benissimo fare l’attore. Alto, volto seducente, splendidi occhi blu, l’inglese ebbe invece in sorte dalla vita la carriera di tennista. Fortissimo atleticamente, molto veloce, dotato di un sangue freddo assoluto, non conosceva momenti di debolezza ed era in grado di giocare l’ultima palla del match con la stessa lucidità della prima.
Era nato il 18 maggio 1909 a Stockport
, una cittadina di poco più di 100 mila abitanti a sud di Manchester, nel Cheshire, un distretto della parte più industrializzata dell’Inghilterra. Suo padre, un artigiano, era impegnato come sindacalista al punto che arrivò a trasferirsi a Earling per rappresentare i Laburisti in Parlamento. Di inglese, sia nel fisico così possente, che nel carattere estroverso, Fred aveva però ben poco e la cosa gli dispiaceva. Tutti, a quell’epoca, l’avrebbero scambiato per un americano. Tra le iniziative che adottò per cercare di avvicinarsi il più possibile all’ stereotipo del gentleman inglese, oltre all’abitudine di tenere in bocca una pipa spenta, vi fu quella di dedicarsi a due sport tipicamente britannici, come il cricket e il football, anche se, in effetti, fu il ping-pong a dargli le prime soddisfazioni.
Il suo approccio iniziale al tennis fu indubbiamente positivo, com’era prevedibile per un tipo intelligente e naturalmente predisposto allo sport come era Perry, però il ragazzo non sembrava possedere ancora quel qualcosa in più che distingue i campioni.
A far scattare la molla giusta, fu l’intuizione di un allenatore dilettante, Pops Summer, che lo indusse a trasferire sul campo da tennis la tecnica pongistica per eseguire uno dei colpi fondamentali: il diritto. Gli insegnò cioè a colpire la palla con un anticipo esasperato, completando il movimento con una torsione del polso, che consentisse alla palla di abbassarsi appena superata la rete. Una sorta  di top-spin ante litteram, però eseguito sempre in corsa, in modo da ottenere la maggior forza possibile e da impostare sistematicamente una tattica aggressiva.
Perry vi si dedicò con costanza, finché il suo diritto non divenne un’arma micidiale che gli apriva grandi possibilità di affermazione, tanto che il padre si convinse a farlo ritirare dagli studi e gli diede un anno di tempo per raggiungere l’obiettivo di diventare un campione.




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Così, nel 1931, Fred Perry si affacciò alla ribalta internazionale vincendo i campionati d’Argentina e facendo il suo esordio in Coppa Davis a fianco di Wilfred Austin e del doppista Pat Hughes. Questa giovane squadra raggiunse il Challenge Round contro la Francia. Perry batté l’ormai mitico Jean Borotra ma, nella giornata decisiva, sul punteggio di 2-2, perse in quattro set il suo match con Herni, lasciando il punto decisivo alla Francia, che conquistò così la sua quinta Coppa Davis consecutiva. Chiuse l’anno al 4° posto della classifica mondiale, guidata proprio da Cochet.
Il 1932 fu un anno interlocutorio. Non vinse nessuna delle grandi competizioni e nemmeno la squadra di Davis, di cui faceva parte, riuscì a raggiungere la finale, eliminata dalla Germania del barone Gottfried Von Cramm. Scivolò così al 7° posto della graduatoria.
Fu nel 1933 che Perry si impose davvero all’attenzione del mondo. In modo particolare il suo nome rimase bene impresso nella mente del venticinquenne australiano John Herbert Crawford, che si presentò alla finale dei campionati americani, dopo aver vinto le prime prove del Grande Slam, quindi a un passo dal raggiungere l’ambizioso traguardo. Di fronte a lui però c’era un ambizioso Fred Perry, deciso a rompergli le uova nel paniere cosa che gli riuscì, anche con l’involontario aiuto del suo avversario, che non tenne conto della scarsa compatibilità tra un farmaco contro l’insonnia e il suo abituale antidoto (alcuni sorsi di brandy) alla nevrosi e all’asma cui andava soggetto. In vantaggio di due set a uno, dopo il riposo, l’ australiano cedette di schianto (6-0 6-1) lasciando nelle mani di Perry il trofeo e, con esso, il sogno del Grande Slam.
Sempre in quell’anno, oltre a prendersi il titolo di doppio, in coppia con Pat Hughes, al Roland Garros, Fred iniziò la serie di quattro successi consecutivi in Coppa Davis, a spese rispettivamente di Francia, Stati Uniti (due volte) e Australia. Nelle quattro finali, Perry si aggiudicò sempre i suoi singolari.
Complessivamente, in Davis, l’inglese disputò 52 incontri (45 vinti) di cui 38 in singolare (34 vinti). Ma, prima del Challenge Round, nel 1933, fu storica la finale interzona contro gli Stati Uniti. Al termine della seconda giornata, con Gran Bretagna che conduceva 2-1, fu Perry a scendere in campo contro Ellsworth Vines, un fuoriclasse del tennis internazionale. Due set a senso unico (6-1 per Vines il primo e 6-0 per Perry il secondo) poi l’americano si aggiudicò il terzo e, sul 3-2 nel quarto, a suo favore, si infortunò a una caviglia. Stoicamente, Vines proseguì, pescando l’impossibile dalle sue risorse fisiche e psichiche, con 10 mila persone, che seguivano l’incontro, in apnea. Perse 7-5. Nel quinto e decisivo set, mentre Perry, in vantaggio 7-6 e 40-15, si accingeva a servire per il match, l’americano crollò a terra svenuto e fu costretto al ritiro.
Anche il Challenge Round al Roland Garros, contro la Francia, ebbe uno strano svolgimento. Rene Lacoste, capitano transalpino, causa il forfait di Borotra, a sorpresa, affidò al giovane André Merlin il ruolo di secondo singolarista, a fianco di Cochet. Tutti attendevano Christian Boussus, che aveva sempre battuto Merlin, ma Borotra spiegò così la scelta: “Per battere la Gran Bretagna ci vuole un miracolo e i miracoli li fa il cuore. Merlin, nonostante il servizio debole, il rovescio insufficiente e la volée incerta, ha dalla sua la giovinezza. Vedremo”.
Contro Perry, Merlin disputò la partita della vita, ma l’inglese gli era troppo superiore e lo batté in quattro set. Il pubblico tributò comunque al giovane sconfitto una grande ovazione. “Ma i cuscini che volavano in cielo – scrisse l’indomani Jacques Goddet – sembravano grosse lacrime rosse che cadevano sul Centrale”.
Quando Austin e Perry arrivarono alla Victoria Station con la coppa tra le mani, 8 mila persone li attendevano per portarli in trionfo. Al termine della stagione, Perry era il n. 2 mondiale, preceduto dall’australiano Crawford, al quale aveva fatto quel terribile scherzo a Forest Hill.
Ma l’obiettivo di Perry era Wimbledon. L’edrba dell’All England Tennis and Croquet Club era il terreno naturale per valorizzare appieno la rapidità del suo gioco. Dopo due tentativi deludenti (uscì la prima volta dopo due turni e la seconda negli ottavi contro l’italiano De Morpurgo), finalmente, nel 1934 a Fred riuscì il colpo pieno e fu il primo di tre successi consecutivi. In queste tre edizioni, Perry vinse 21 incontri filati; le sue vittime in finale furono dapprima Crawford (1934), poi due volte Von Cramm (1935 e 36). Concluse vincendo a Forest Hill, in Australia, dove fece suo anche il doppio a fianco di Hughes e installandosi sul trono del mondo.


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Nel 1935, oltre a vincere a Wimbledon e in Francia (entrambe le volte in finale su Von Cramm), contrasse il primo dei suoi tre matrimoni, che caratterizzarono la sua tumultuosa vittima sentimentale, sposando l’attrice Helen Vinson – si dice – alle 11 di sera, dopo una sconfitta, per infortunio, nella finale dei campionati americani.

Il 1936 fu l’anno del suo addio. Di quella stagione, più che l’ inopinata sconfitta al Roland Garros ad opera di Von Cramm (6-0 al quinto) e la successiva rivincita sul Barone a Wimbledon, sconfitto 6-1 6-1 6-0, causa uno strappo muscolare che menomò il tedesco fin dal primo gioco, è da ricordare la straordinaria finale di Forest Hill.
Ad affrontare Perry c’era un giovane americano di 21 anni, John Donald Budge, che entusiasmò gli spettatori portando Fred al quinto set e cedendo solo col punteggio di 10-8. Purtroppo, il duello tra i due non si ripeterà più perché, nello stesso anno, Perry firmerà un contratto con la troupe professionistica di Bill Tilden. Un avvenimento che segnerà di fatto la fine del predominio inglese nel mondo. I suoi aficionados presero la cosa molto male, tanto da indurre Perry ad assumere la nazionalità americana.
Lasciata l’attività agonistica, divenne industriale producendo e distribuendo in tutto il mondo la maglietta da tennis contraddistinta con la famosa coroncina di alloro, quindi giornalista e commentatore televisivo
.
Il dominio di Perry durò quindi in effetti solo quattro anni – dal 1933 al 1936 – ma furono stagioni esaltanti in cui l’inglese portò sui campi un tennis che fu il primo a essere il più vicino a quello moderno. Il tennis in fondo lo ha accompagnato fino alla fine della sua esistenza. L’inglese infatti morì il 2 febbraio 1995 in seguito ai postumi di una brutta caduta a Melbourne, dove si era recato per seguire gli Open d’ Australia.


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