Fognini merita i complimenti per la finale di Bucarest, ma Gilles Simon è un tennista più forte di lui. La brillantezza del gesto non è equivalente di forza e solidità.
La premiazione del torneo ATP di Bucarest

Di Federico Ferrero – 1 maggio 2012


Nella primavera 2009 Fabio Fognini aveva incrociato, in tre settimane consecutive, Gilles Simon. Sempre sulla terra: Roma, Estoril, Madrid. Ne vennero fuori tre sconfitte con parziale di sei set a uno. Ricordo di aver scambiato due chiacchiere con lui ai tempi: a sostenere l’ovvia tesi che il pupillo di Nizza fosse più forte non ero tanto io, né lo scout dei risultati, ma Fabio stesso.
Tre anni dopo, rieccoci: al grido di la storia non è magistra di niente che ci riguardi, un po’ per deficit di memoria, un po’ perché le rarissime finali con un italiano in campo (per Fabio era la prima) solleticano più il tifo della ragione, siamo ricaduti nel vortice dei se-e-ma. A mio modo di vedere le cose stanno così.
 
Fognini gioca meglio a tennis. Possibile, anzi: probabile. Non in misura clamorosa. Secondo me Fabio ha più sensibilità di Simon e tecnicamente si ritrova un dritto migliore anche se il rovescio che preferisco è quello di Gilles, così come la prima di servizio (la seconda di entrambi è così così). Non sono neanche d’accordo con chi sintetizza le differenze tra i due figurando un giocatore che spinge e l’altro che fa muro aspettando l’errore di sfinimento. Anzi, sono convinto che sul cemento le differenze a favore di Simon si acuirebbero perché Gilles potrebbe giocare ancora più sul ritmo. Ma mettiamo pure che Fabio giochi un po’ meglio di Simon. Se il tennis fosse una competizione estetica graduata sul talento e sulla capacità tecnica allora Hicham Arazi sarebbe stato il numero uno del mondo e non ci sarebbe ragione di trovare Berdych, che quando tocca una palla da sotto pare usare un falcetto, e non Llodra tra i top ten. A dirla tutta, però, se si pesasse solo il talento nemmeno Fognini farebbe mai parte dei primi trenta tennisti del mondo.
 
Il problema è la testa. Detta così vuol dire tutto e niente (preferibilmente niente). Le difficoltà del tennis di eccellenza sono le stesse per tutti. Non è che Simon non senta la pressione: come spiega bene Allen Fox nel suo Winning the mental match tutti sono soggetti al choking, tutti sono tesi come pelli di tamburo nei momenti topici di un match, tanto più se c’è molto in gioco. Da Federer a Jesse Huta Galung. È assurdo sostenere che ci siano atleti capaci di non avvertire la tensione o che non sentano il braccio di legno in alcune circostanze. Saper convivere con la paura di vincere, di perdere, di sbagliare senza smarrire il controllo della partita è una capacità che non tutti hanno, non tutti allenano, non tutti sanno migliorare. Anche questo è un talento: saper fare le cose quando è difficile farle (oltretutto Fognini era sfavorito, psicologicamente era Simon a ‘dover’ dimostrare qualcosa: testa di serie numero uno, terza finale in Romania, strafavorito).
Il mantra gioca tutti i punti è una tautologia: tutti giocano tutti i punti. C’è però chi gioca senza aver ancora accettato quello che è successo nel punto precedente, nel set precedente, sul set point mancato o sulla palla break buttata alle ortiche. E chi, invece, ha metabolizzato l’essenza del tennis agonistico e sa venire a patti con quanto avviene senza rovinare ciò che ancora deve succedere e che, in fondo, ancora dipende da lui e non dal vento, dalla sfiga o dal malocchio. In questo bisogna essere chiari: Simon è qualche migliaio di chilometri avanti rispetto a Fognini. A proposito: provate a ricordare come ha reagito Fabio a un nastro molto fortunato del suo avversario su una palla break.
 
Promesse. A chi sostiene – qui parlo di Fabio ma il discorso vale per tutti i giocatori lontani dal vertice e che si vorrebbero vedere al top – che Fognini è una promessa, vale  i primi 20, i primi 15, sulla terra i primi 10 vorrei domandare fino a quale età si ritenga lecito parlare di promessa, cosa significhi mantenere una promessa e, soprattutto, su quali basi si possa affermare che un giocatore abbia in sé le qualità per svegliarsi un bel giorno vestito da superstar in compagnia di fuoriclasse contro cui ha giocato poco (e sempre perso). Un suggerimento quasi inutile: prima di citare John Isner consultare attentamente lo storico della sua carriera pro.
 
La morale è che il filmato della finale di Bucarest si può montare con i dieci colpi migliori, sette dei quali firmati Fognini. Che però è un tennista più debole di Gilles Simon. Più brillante, più debole.
Simon, ex numero 6 del mondo, è tornato in odore di top 10 dopo una semifinale in un Masters 1000 in cui ha fatto fuori due tra i primi dieci, Tipsarevic e Tsonga. Ha già vinto 10 titoli in 12 finali (una persa in un Master 1000, a Madrid). Ha battuto Federer e Nadal in un finale di stagione 2008 clamoroso che lo proiettò al Masters in Cina, dove superò per la seconda volta in poche settimane Roger e perse solo 7-5 al terzo la semifinale contro Djokovic.
Tutto questo non succederà a Fognini, mi spiace. E non è una questione di infortuni. Quando sento, o leggo la solfa se Tizio è nei top ten allora ci può stare anche Caio penso che sarebbe opportuna maggior cautela. Di wannabe, never was ne abbiamo collezionati più noi italiani con le nostre aspettative assurde, dopate da un tifo sgangherato di Dna calcistico, che il resto del mondo. Se invece vi piace leggere le storie a fumetti troverete anche oggi in abbondanza le ‘sparate’ senza riscontri che hanno accomunato le carriere di tre quarti del tennisti italiani dal 1980 in poi.
 
Detto questo, complimenti a Fognini per la sua prima finale. Bravo. Ha sconfitto due top 50, Baghdatis – che è più facile da affrontare sulla terra ma è un signor giocatore – e Seppi. Ha sfruttato il regalo del numero 450 del mondo in semifinale. È tornato nei primi 50 del mondo: confidiamo in altri risultati, magari in tornei superiori agli Atp 250 nella sua stagione più prolifica, quella rossa.
 
Se invece aspettate il Messia, appunto, aspettate.