Stefano Travaglia non avrebbe più dovuto impugnare una racchetta. È normale quando cadi dalle scale e finisci contro una finestra, con un vetro che ti lacera arterie e tendini della mano. Lui non si è arreso e, a distanza di sei anni da quell’incidente, punta dritto alla top 100 mondiale. Consapevole com’è, che il meglio deve ancora venire.

FOLIGNO – La memoria può farci avere le rose a dicembre e può lasciare cicatrici nel cuore, ma è necessaria. Stefano Travaglia è un bel ragazzo di 25 anni, longilineo e magro. Ha i capelli lunghi disciplinati dal cappellino o dalla fascia, la barba è tenuta sotto controllo, cresciuta ma non trascurata. Come molti atleti professionisti è ben proporzionato e i muscoli formano linee che esaltano la struttura, senza appesantirla perché è una necessità: sogna, lotta per i suoi sogni, dev’essere leggero perché la strada è in salita, è una classifica mondiale da scalare che diventa sempre più interessante quando i numeri si fanno più piccoli: è 133, adesso, ha giocato a Wimbledon, passando le qualificazioni e perdendo al quinto set da Rublev che mandava i primi segnali della grande estate che lo ha instradato verso il vertice mondiale, dov’era atteso. Poi s’è guadagnato lo stesso diritto a New York e lì ha vinto anche nel tabellone principale, battendo il tennista italiano più forte, Fognini, in una partita di cui l’altro si è comunque mediaticamente impossessato per le sconcezze rivolte alla giudice di sedia.

UN VETRO CONFICCATO NEL BRACCIO
Ma Travaglia, adesso, possiede il suo destino, può competere, può vincere. «Voglio entrare nei 100» dice lui, e guarda avanti. «Ma puoi arrivare nei 50», gli ripetono tutti (compreso io, senza piaggeria). Come tutti, è fatto di memoria, di gesti compiuti, affetti vissuti, fotografie e sentimenti dolorosi e sorprendenti, e attraverso la memoria trova l’esatta dimensione di sé e con la memoria si fortifica, per costruire quello che può. Infatti racconta e nei ricordi trova le radici di quello che adesso raccoglie: una consapevolezza dunque robusta, promettente. Una forma stilizzata, che percorre il braccio fra il polso e l’incavo del gomito, nitida come un segno di penna, una specie di Z con il tratto basso molto più lungo. È un punto di partenza (non l’unico) di una buona sceneggiatura che avrà poi un’evoluzione positiva. Successe una sera d’estate, nel 2011, scendendo una scalinata breve e buia: al seminterrato del palazzo dove viveva con la famiglia c’era un sarto che gli abbelliva le maglie da gioco, applicando quelle toppe dei primi sponsor, perché qualche risultato era già arrivato: due Futures vinti e un paio di turni nei Challenger estivi italiani. Travaglia era il numero 306 del mondo: chi si era interessato chiedeva un posticino sulla divisa, e bisognava cucirne il marchio sulla maglia. «Una discesa percorsa tante volte, mi sono lanciato per le scale con un’esuberanza giovanile, saltellando divertito. Ma ero in ciabatte, quindi con meno aderenza. La signora delle pulizie aveva appena finito il suo lavoro e i gradini erano scivolosi. Era buio. Volai via, precipitando e mettendo le mani avanti per riflesso e istinto, cadendo verso la finestrella che intervalla le due rampe, quelle piccole aperture di vetro vecchio che fanno un po’ di luce». Il vetro cede, si sbriciola ma ne resta una punta attaccata all’infisso. Quella punta taglia e trapassa il braccio: «Io non sento dolore e quasi mi rassereno ma vedo troppo sangue e capisco che è successo qualcosa. A me. Vedo il braccio. Degli attimi successivi, onestamente ricordo poco. Non ero svenuto, ma nemmeno così cosciente, o forse mi rifiutavo di esserlo. Il vetro tagliò arterie e tendini. Avevo vent’anni». La cicatrice è spessa ma sfumata, dietro al taglio a zeta allungata, che lo squarcio d’uscita ha infilzato come carne allo spiedo. Davanti a questo, il dottore galleggiava fra lo scampato pericolo («Muoverai ancora la mano e il braccio») e i dubbi agonistici («Ne riparleremo fra sette mesi, ma serviranno due, tre anni di recupero», e questo periodo era in fondo una sentenza). Al tempo della ferita, Stefano si allenava da un anno in Argentina e a Baires passava metà della sua vita, in una terra – il Sudamerica – che organizza molti tornei minori per chi vuole emergere. Ma non si trattava più di giocare, di allenarsi: non poté impugnare una racchetta per undici mesi, e nelle prime settimane di questo strazio non sentiva più le dita: «Avevo perso la sensibilità. Le vedevo ma non mi rispondevano». Il tempo vola ma non passa, resta addosso con segni evidenti: però, appunto, passa. «Finalmente ricominciai a colpire la palla e dopo due mesi tornai a giocare le partite. Avevo finito i punti in classifica, ero sceso allo zero assoluto, non ero più nessuno, non avevo un passato. E non m’interessava: io sentivo di essere un atleta e mi godevo quel momento, quella mia interezza. Ricordo la prima partita a Mar del Plata, sempre in Argentina, in un torneo Futures: vinsi ma dopo tre game ero già stanco, avevo i colpi ma non avevo fondo, subivo la partita. Il turno dopo persi, ma ero tornato».

LUI, FEDERER E LE PALLE SULLE RECINZIONI
Passa qualche anno. La storia di Stefano deve attendere una bella partita al Foro Italico (persa 7-5 al terzo contro Bolelli nel 2014) per farsi conoscere. La classifica è tornata quella di prima, una zona ampia dove molti tennisti sono divisi da pochi punti, dove bisogna scegliere in quali tornei portare il coach perché i soldi per averlo sempre accanto non ci sono, «dove si vincono poche partite ma si continua a investire su se stessi. È una selezione naturale, il talento serve, ma non basta». È ancora in Argentina: al di là del sostegno tecnico e tattico, la distanza è uno stimolo al senso del sacrificio. Ed è laggiù, lontanissimo, quando arriva una telefonata da Dubai: «Ehi, Stefano, dove sei?». La voce ha l’accento chiuso tipico della parlata slava. È Ivan Ljubicic, non ancora coach di Federer ma comunque già nell’ampio staff dello svizzero come consigliere. Roger deve preparare i tornei di fine anno sul veloce e cerca uno sparring. Ljubicic evidentemente possiede un archivio delle caratteristiche di un migliaio di colleghi e sceglie proprio Stefano: «Io dovevo giocare un Futures in Argentina ma non lo dico: sono pronto, ma sono anche lontano, molto lontano. Non faccio in tempo a rimpiangere quella distanza, Ljubicic è pratico: stai tranquillo, facciamo tutto noi. Chiudo la telefonata e nel giro di pochi minuti mi arrivano i biglietti aerei di andata e ritorno Buenos Aires – Dubai, oltre al soggiorno. Dovevo essere io a dare il ritmo a Federer, il giorno dopo sono in campo e lui è dall’altra parte della rete. Mi manda la palla, filante, piatta, comoda, io la colpisco e finisce in rete. Ne manda un’altra, piatta, filante, perfetta, vado per colpirla con più decisione, e la spedisco sulle recinzioni del campo. Terza palla, stesso destino: recinzioni. Sono angosciato. Lui è tranquillo, io ormai mi sento perduto, mi guarda, mi fa un cenno che mi rasserena, e cominciamo a giocare. Lo facciamo per due settimane. Adesso che finalmente frequento gli Slam, capita che lo incontro, lui si ricorda, saluta, e se posso, mi fermo a vederlo. È il tennis. Quando so di altri colleghi che gli fanno da sparring e racconto le mie tre prime palle a vuoto scopro che è successo anche a loro. Scambiare due colpi con la storia del tennis fa questo effetto».

L'ESEMPIO DI PAOLO LORENZI
I genitori di Stefano sono maestri di tennis ad Ascoli, mamma ha ancora una classifica importante, 2.8. Stefano è nato con il rumore del rimbalzo, è cresciuto «guardando la traiettoria di una pallina gialla e le volée di Sampras. I miei mi hanno lasciato libero di scegliere» dice e sa che il destino aveva scelto. Ma giocare a tennis è un conto, fare il professionista un altro: «Mi hanno aiutato, seguito e lasciato il tempo per tutto. Quando potevano, pagavano le spese. E io rinunciavo alle vacanze: capivo i loro sacrifici. Per anni ho speso il triplo dei premi vinti. Per fortuna ci sono le competizioni a squadre che permettono di guadagnare qualcosa per potersi allenare, ma quante volte mi sarebbe servito il coach a bordo campo, invece ti volti e sei solo. Quest’anno è andata bene, ma a Wimbledon mica ero in pari: ho sempre vissuto questo aspetto come un investimento, che poi sarebbe tornato indietro. E comunque questo lavoro ti fa girare il mondo, qualcosa ti dà, sempre. C’è un tennista che è un esempio, per tutti: Paolo Lorenzi. Fa capire quanto è importante investire su se stessi, sul lavoro, sugli aspetti tecnici, tattici e psicologici del gioco, e quanto un piccolo dettaglio – se migliorato – possa portare grandi vantaggi. Lui affronta ogni avversario (il numero 5 del mondocome il numero 400) cercando di valorizzare il proprio gioco».

PIÙ MORBIDO, PIÙ LUNGO…
Il suo, di gioco. Ottimo servizio, dritto che guadagna campo e chiude il punto, rovescio che tiene sempre meglio, un atteggiamento aggressivo e coraggioso. «Mi sono accorto di essere migliorato nella costruzione del punto, nella tenuta delle diagonali, nell’attesa della palla da colpire per chiudere: questo è decisivo, capisci che il lavoro funziona, che torna, allora la fiducia cresce e tutto viene meglio. Sono riuscito a cambiare le scelte nei punti importanti, ma senza crescita tecnica e tattica non esiste serenità. Ho lavorato sull’ampiezza dei colpi, ero troppo corto e contratto nei movimenti, adesso sono più morbido, lungo. E sono tranquillo, rassicurato dal tennis che riesco a giocare e studio come alzare le percentuali con il rovescio. Un tempo ero appagato quando piazzavo un dritto a 200 all’ora sulla riga, oggi sono contento solo quando vinco l’ultimo punto della partita. Il lavoro fatto da quando sono a Foligno (dall’autunno del 2015 Nda) so che mi può far salire in classifica. So che il meglio deve ancora venire».Il posto è piacevole e chiassoso, bambini e bambine, ragazze e ragazzi passeggiano, entrano ed escono dai loro turni di allenamento. Nel campo vicino alla strada c’è Gianluigi Quinzi che sta cercando di trovare la sua dimensione, tutto sembra rilassato senza monacali isolamenti né severi controlli o esasperazioni sul nulla. Fra i molti campi (in terra, in cemento) l’attività è continua e solare, il gruppo dei professionisti si mescola agli altri: «Questa condivisione mi rende felice. Stare in mezzo alla gente, vedere i bambini imparare a impugnare la racchetta o Fabbiano scalare il ranking. È una promiscuità di aspettative, disponibilità e orizzonti che ci fa bene. La settimana di allenamento è la più faticosa e appagante. L’ho capito e ci metto concentrazione e con i coach le idee: aggiungere qualcosa, anche minima, ti fa star bene fisicamente e mentalmente. Allora, puoi giocare il tuo tennis». Un’altra fotografia virata seppia che racconta il suo percorso: «Al Challenger di Santiago del Cile, prima del vetro nel braccio. Era il 2011, secondo turno contro Diego Junqueira, vinco il primo set e nel tie-break del secondo sono 5-4: ho un dritto da tirare, comodo, finisce in rete. Perdo il set, la partita, sfuma il quarto di finale in un Challenger a 19 ann iun risultato che cercavo, un traguardo possibile, mancavano due punti, due colpi. Mentre giocavo e vincevo stavo calcolando la classifica che migliorava. Sono passati sei anni, è successo di tutto, eppure ricordo quel momento e quella delusione in modo nitido».

QUELLA VOLÉE IN TUFFO A WIMBLEDON…
Tornano le parole dell’inizio di questa chiacchierata: costruire il punto, tramare, aspettare, raddoppiare l’attenzione per questo rituale nei punti importanti. Il talento non basta, nemmeno ai fenomeni: le cose si possono costruire (e distruggere). Ma si devono sognare: «Quando hanno sorteggiato il tabellone di Wimbledon, io dovevo ancora giocare l’ultimo turno delle qualificazioni. Vedo che a Murray tocca un qualificato. Vado in campo, vinco e spero di essere accoppiato a lui. Giocare il primo incontro sul Centrale immacolato e vergine, verdissimo, contro il numero 1 del mondo…» e mentre lo dice si accorge (sa) che sta fissando un prossimo obiettivo. «Invece mi è toccato Rublev, che tira forte e adesso dentro il campo, anche nei punti importanti. Nessuno lo sa, nessuno l’ha visto: nel quarto set (la partita è finita 7-5 al quinto per il russo) ero sotto di un break, poteva già finire lì, ma rientro dentro il match facendo una volée in tuffo, alla Becker: un punto pazzesco che non ha visto nessuno».

LUI, IL PADRE E LE TROTE
Divaghiamo, per ricordare, che in fondo – intuì Eduardo Galeano – è ri-passare dalle parti del cuore. «Mi piace cucinare: cose semplici, per me. Anche il pesce, le trote che vado a pescare nel Tronto, insieme a papà. Partiamo la mattina presto, e stiamo in riva al fiume, senza rumore, e parliamo. Con lui e mamma ho un rapporto schietto, ci diciamo tutto. Là, nel bosco, può succedere che mi addormento, dopo una settimana di allenamenti intensi. E può succedere che ne peschi tante, di trote. Poi ci faccio il sugo, o le cucino impanate, se rendono bene: stavo per iscrivermi all’Istituto alberghiero ma era troppo lontano da casa, non sarei riuscito ad allenarmi». Volevo chiedergli altre cose, personali e del gioco. Ma ha tempo per riempire i suoi tini, lui stesso è convinto che siano pieni a metà. Torneremo per la vendemmia, torneremo volentieri in questo posto bellissimo, e Stefano avrà altro da ricordare.