Un'intervista storica: Roger Federer al microfono di Lorenzo Cazzaniga, nel febbraio del 2001. Quando a Milano il campione di Basilea vinse il suo primo titolo ATP, e la gente iniziava a paragonarlo a Pete Sampras. "Se dico di essere pronto a fare quello che ha realizzato lui mi prendono per matto". Invece…
Nel 2001, mi occupavo dell’ufficio stampa del torneo ATP di Milano, con la direzione di Franco Bartoni. In finale, arrivò Roger Federer. Ricordo che eravamo soliti introdurre i giocatori in campo con la canzone che preferivano. Roger ne voleva una dei Metallica. Cercai di spiegargli che Milano non era New York e che sabato sera a mezzanotte non avrei mai trovato un negozio capace di vendermi un cd dei Metallica. Gli chiesi di darmi il suo: accettò riluttante, come si trattasse di un pezzo d’antiquariato (e infatti non era in grandi condizioni!). “Ok, però alla fine del match me lo ridai!”. All’epoca Federer non aveva raggiunto una sola semifinale Slam, restava a bocca aperta davanti ai numeri di Pete Sampras, confessava di telefonare ancora al primo maestro Peter Carter (che un anno e mezzo dopo sarebbe morto in un incidente stradale in Sud Africa, paese natale della madre di Federer) ma si esprimeva già con una certa personalità. L’articolo è apparso sul numero di marzo 2001 di Tennis Italiano. E il “guaglione” che bazzicava il Palalido aveva ragione…
Se nasci a Mergellina è d’obbligo avere il football come fede e Maradona come profeta. Può però capitare che tra i calciofili si nasconda un aficionado del Nobile Gioco. E così, infrattato tra 4.000 milanesi, al Palalido si scorgeva un “guaglione” meravigliato dal gioco di un giovane svizzero, Roger Federer, che stava dominando il torneo. “Chillo è meglio ‘e Sampras” si lasciava scappare in una reminenscenza del canto da stadio che inneggiava a un Maradona più meritevole di Pelè. Ora, con tutto il rispetto per l’intuito partenopeo, l’affermazione è tanto azzardata da spingerci a chiedere a un tecnico un maggior approfondimento. Tra i nostri amici c’è chi, a nome Claudio Mezzadri, nella carriera del campioncino rossocrociato ha vissuto un ruolo importante. È stato Mezzadri a gettarlo nella mischia della Davis quando ancora Roger non aveva raggiunto la maggiore età, contro una navigata equipe azzurra. Fu una Caporetto. Per l’Italia, beninteso. Ora, secondo Mezzadri, i paragoni con Pistol Pete sono quantomeno arrischiati e non solo per una mera questione di risultati. Ne fa un discorso tecnico: “Leggo spesso che il gioco di Federer assomiglia a quello di Sampras – afferma – mi sembra un paragone sbagliato. La tecnica esecutiva infatti è del tutto differente. Sampras gioca molto più piatto e porta i colpi con uno stile molto diverso. Se proprio si vuole trovare un’analogia, bisogna spingersi sulla tattica di gioco: quella si, è molto simile”. Nel dettaglio, si tratta di un giocatore particolarmente offensivo. Non è un purista del serve and volley come Pat Rafter, ma preferisce l’attacco in due tempi: servizio più botta di dritto, un colpo che ha perfezionato fino a renderlo letale. “E’ tra i pochi – spiega coach Lundgren – che preferisce anche da sinistra affidarsi al lungolinea piuttosto che alla classica soluzione a uscire verso destra”. “Per me lo tira dove gli pare – ribatte Mezzadri, che aggiunge: – appena si completa fisicamente, il suo schema preferito diventerà il serve and…basta, perchè con il suo movimento di battuta non azzecchi mai dove la tira”. Ora, se la tecnica esecutiva è da primo della classe, la personalità spiccata e decisa, il fisico piazzato e di perfette proporzioni, l’obiettivo diventa uno solo: Pete Sampras. Adesso che ha vinto il suo primo torneo, proprio a Milano, si può dire che la sua scalata al vertice sia cominciata. L’abbiamo chiesto direttamente a lui.
Qual è stato il momento in cui la ruota è girata?
Il torneo di Basilea. Giocavo a casa mia, di fronte ai miei amici, con le aspettative di tutti sulle spalle. Giocai un gran torneo, perdendo in finale 7-5 al quinto contro Enqvist. Da lì hanno tutti cominciato a guardarmi con più rispetto e io a credere di più nelle mie possibilità.
Dopo aver battuto praticamente da solo gli Stati Uniti in Davis, si sente il numero 1 del suo Paese?
Difficile sostenere il contrario: il ranking parla chiaro ed è quella l’opinione della gente, dei tecnici in particolare. E’ una bella sensazione anche se, capirete, il mio obiettivo non è limitato a essere un number one in Svizzera.
Che ruolo ha recitato nella sua carriera Carter, il suo primo maestro?
Mi ha insegnato tutto, senza di lui non sarei mai arrivato dove sono adesso. Mi ha messo una racchetta in mano, mi ha insegnato la tecnica esecutiva e come stare in campo. Gli devo molto e ancora adesso non manco di chiamarlo di tanto in tanto.
Perchè ha deciso di lasciarlo?
E’ stata una decisione comune. Lui ha voluto continuare a lavorare per la federazione, io me ne sono voluto staccare. Lavoravo sia con lui sia con Peter Lundgren, supportato dalla federazione svizzera. Però quando punti a traguardi importanti devi cominciare a camminare con le tue gambe, e poi avevo bisogno di un supporto specifico e di qualcuno che potesse seguirmi full-time e prendere decisioni in maniera completamente indipendente. E così mi sento più libero a livello mentale.
Ha quindi abbandonato la federazione?
Credo di essere in grado di fare bene senza aiuti esterni. La federazione è meglio che pensi ai giovani.
Una presa di posizione decisa, figlia di un carattere molto estroverso e poco svizzero: come lo spiega?
E’ colpa di mia madre: lei è sudafricana e devo aver preso molto del suo carattere. Ma nel tennis, che è uno sport individuale, senza una spiccata personalità è un minimo di follia non si va lontano. Eppoi non è che faccia cose pazze: semplicemente mi piace divertirmi anche in campo. Un tempo ero molto più irascibile, parlavo troppo con gli arbitri e finivo col distrarmi. Adesso so concentrarmi maggiormente sul mio gioco e su ciò che accade in campo piuttosto che su quel che succede fuori.
Molti la indicano come il nuovo Sampras: è un paragone che la spaventa o lo trova calzante?
Quanti titoli dello Slam ha vinto Pete? Tredici? Uauuu….ne ho di strada da fare. Molti dicono che i suoi record siano inavvicinabili e difficilmente verranno chiusi in manicomio per questo. Il fatto è che entrambi giochiamo “sciolti”, col rovescio classico, attacchiamo spesso, serviamo forte e utilizziamo la stessa racchetta (Wilson Pro Staff Original 85, ndr). Ma se dico di essere pronto a fare quello che ha realizzato lui mi prendono per matto. Per adesso lascio che lo dicano gli altri, anche se un po’ di pressione, tutte queste aspettative, la creano.
Le hanno mai fatto invidia le attenzioni che riscuoteva Martina Hingis rispetto a quelle riservate a voi del circuito maschile?
No, anche perchè erano e sono del tutto meritate. Quando anch’io vincerò tutti quei titoli dello Slam pretenderò le stesse attenzioni e la medesima considerazione. Martina è da tanti anni la numero 1 del mondo e tra le sportive più famose al mondo: mica può passare osservata in un paese che ha solo sciatori ai vertici dello sport mondiale. E’ difficile paragonarsi a lei, comunque non ho certo l’obiettivo di superarla in notorietà.
Mostra un certo interesse per Martina, tanto che qualcuno sussurrava di una vostra love story…
Falso. Completamente. Non è da quel punto di vista che mi interessa.E’ d’accordo con la battaglia portata avanti da Evgeny Kafelnikov in Australia, che chiede montepremi più alti per gli uomini rispetto alle donne?
E’ chiaro che fatichiamo più delle donne. Spesso giocatrici come Hingis o le Williams arrivano in semifinale in un torneo dello Slam passeggiando, mentre in campo maschile anche un primo turno può essere insidioso per campioni come Agassi e Sampras. Giocare 3 set su 5 per due settimane è durissima, ma non credo che i tennisti siano sottopagati. Il problema è che i più forti sono pagati troppo e chi sta dietro…troppo poco. Si può essere numero 100 del mondo in uno sport individuale e così internazionale come il tennis e non riuscire a guadagnare un po’ di soldi? Secondo me è pazzesco.
Il suo coach Peter Lundgren dice che il suo limite attuale sono i tornei outdoor, dove non riesce ad essere competitivo come nei tornei indoor….
E’ un fatto strano perchè non trovo un motivo serio che lo spieghi. Mi dà fastidio il vento, ma credo che nessuno ami giocare in quelle condizioni. E comunque in Australia ho giocato bene, allo Us Open pure. E lo stesso discorso vale per la terra battuta: dovrebbe essere la mia superficie meno congeniale, ma il miglior risultato nei tornei del Grande Slam l’ho ottenuto al Roland Garros (quarto turno nel 2000, ndr). Sono strano, eh?
Parla di Roland Garros, ma il suo sogno in termini agonistici è un altro….
Wimbledon. L’erba è la superficie che preferisco, la tradizione inglese è quella che più mi affascina. E poi ditemi chi è quel pazzo che non sogna nella vita di vincere “The Championships”! Io ci ho vinto la prova juniores, ma non è esattamente la stessa cosa.
Ma si sente già in grado di vincere un torneo del Grande Slam?
Difficile dirlo. Certo che se ancora non ho raggiunto nemmeno una semifinale non posso affermare di essere tra i favoriti nei prossimi Slam. Però sto crescendo e tra oggi e Wimbledon ci sono di mezzo quattro mesi.
Lei ha giocato piuttosto bene alle Olimpiadi (ha perso la finale per il bronzo contro Arnaud Di Pasquale, ndr) e in maniera straordinaria contro gli Stati Uniti in Davis lo scorso febbraio: le piace lo spirito di squadra che si instaura in queste occasioni?
Amo lo spirito di squadra e mi sento molto responsabilizzato quando vesto la maglia della nazionale. Sono orgoglioso di essere svizzero e vincere la Davis per me riveste la stessa importanza che trionfare a Wimbledon.
Però non sembra avere rapporti molto stretti col capitano Jakob Hlasek: in tre giorni di gare contro gli States non lo ha guardato una volta in faccia durante i cambi di campo. Come lo spiega?
Non avevo niente da dirgli. E poi per come stavo giocando non credo avessi bisogno di molti consigli. E’ una situazione delicata: il capitano non lo abbiamo scelto noi giocatori e il feeling non è eccezionale. Non si respira un clima di serenità: si cerca di tollerare tutto per il bene della squadra e del risultato.
Lei, Safin, Ferrero, Hewitt: crede che la nouvelle vague sia già in grado di prendere il posto di Sampras e Agassi?
Visto com’è andata in Australia c’è ancora molto da fare. Agassi ha vinto a mani basse. Però è ingiusto proporre dei paragoni tra loro e i giovani emergenti adesso: lasciateci ancora un paio d’anni, poi si potrà dire se qualcuno di noi è in grado di raccoglierne l’eredità.
Molti sperano in lei perchè il tennis ha sempre più bisogno di personaggi estroversi. Qual’è la pazzia più grande mai commessa in vita sua?
Attenzione: sarò estroverso, ma mica pazzo. Se credete che sia il tipo che si appende a un elastico e si butta giù a 60 metri vi sbagliate di grosso. Ho una fifa blu. Però mi piace divertirmi anche perchè, dopo un breve periodo di ambientamento, ho trovato dei compagni con cui fare un po’ di baldoria. Chi sono? Koubek, Hrbaty, i ragazzi francesi e svizzeri: tutti giovani con la voglia di vincere e divertirsi.
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