WIMBLEDON, IL PUNTO – Abbagliati dalla bellezza tecnica ed emotiva della rimonta di Federer contro Marin Cilic, molti non hanno colto l’essenza e la ragione di questo successo: il lavoro. Lo svizzero non si è mai crogiolato nel suo talento, ma l’ha curato e innaffiato anche nei momenti difficili. Per questo, Roger è un esempio molto più replicabile di quel che si pensa.

L’interesse si è focalizzato su una sola partita. Anzi, su un giocatore. Con buona pace di Andy Murray, la rimonta di Roger Federer contro Marin Cilic ha rimandato a tempi antichi, all’epicità più spinta. Ci saranno titoli a nove colonne, pagine intere, celebrazioni sfrenate. Ancora una volta, Roger si conferma il tennista più amato di tutti i tempi. Ci fosse stato internet ai tempi di Cochet, Tilden, Kramer, Laver, Borg e gli altri divi, forse diremmo altro. Ma nel ventunesimo secolo, dove ci si può organizzare da un giorno all’altro grazie ai voli low-cost, il tifo per Federer è sconfinato, senza limiti. Un divismo degno di una rockstar che lui gestisce con semplicità. E questo lo fa amare ancora di più, come quando – nell’intervista realizzata con Origami – non si è dato troppa importanza e ha detto che è molto più semplice essere Roger Federer piuttosto che il Presidente degli Stati Uniti. La maxi-rimonta contro Marin Cilic ve l’ha raccontata Marco Caldara: sul piano strettamente tecnico, è opportuno ricordare che si tratta della decima rimonta dopo aver perso i primi due set. E’ il record assoluto, al pari di Boris Becker e “Marathon Man” Aaron Krickstein (che però è ricordato più per averne persa una – anche se era avanti “solo” due set a uno – che per quelle vinte…). Bravo tatticamente, accorto e allo stesso tempo coraggioso, ha approfittato del progressivo calo di Cilic. Il croato sembrava la fiamma di una candela: luminosa fino a quando la cera ha resistito, ma poi è andato incontro all’inevitabile spegnimento. Federer non è una pila Duracell: questa caratteristica ce l’hanno altri, compresi i suoi grandi rivali, ma per tre ore e un quarto ha mantenuto la stessa intensità. Come una lampadina accesa. Lui dice di aver letto meglio il servizio di Cilic grazie a una piccola modifica nella posizione in risposta, ma c’è molto della tremarella croata in questo risultato. Ma in fondo non importa. Tra 5, 10, 20 anni ci ricorderemo della rimonta, del risultato, meno delle modalità.

Ma è bello – e giusto – fotografare la remuntada federeriana da un’altra prospettiva. Non è stato il successo del talento, e nemmeno delle volèe e degli slice contro la forza bruta. E’ stata la vittoria del lavoro. Guardiamo Federer e restiamo abbagliati dal suo stile, ma dietro c’è un lavoro incredibile e un’attenzione maniacale. C’è un detto secondo cui il lavoro paga. Dai e dai, prima o poi qualcosa ti torna indietro. Lo pensa fermamente il nostro Simone Bolelli, aggrappato alle sue ambizioni con ammirevole coraggio, nonostante una caterva di sfortune. Deve pensarlo anche Federer, specie negli ultimi tre anni, da quando la schiena è diventata un problema. Ha capito che deve lavorare con ancora più attenzione, dedizione, cura. Non significa allenarsi di più e sfondare il fisico. Significa allenarsi meglio, mettere qualità in ogni cosa. Dalla singola palla giocata in allenamento alla gestione degli impegni, ai figli, alla famiglia, all’alimentazione e alla prevenzione degli infortuni. Cose che richiedono una dedizione maniacale, specie se sei un multimiliardario che fa il professionista dal 1998 e non ha nessun bisogno di continuare a sparare palline. Federer ha questa dedizione. Una qualità che vale quanto il suo dritto, il servizio, le volèe. Il talento è bello, brilla e può anche abbagliare. Ma non basta. Prendete Nick Kyrgios: prima di scendere in campo contro Murray, si è messo a bighellonare al computer e non assume un coach, così può fare quello che gli pare. Se Federer avesse tenuto una condotta simile, la sua carriera sarebbe finita 6-7 anni fa. Ma gli esempi sono tanti, tantissimi. La voglia di lavorare, di essere professionista, di soffrire quando non c’è nessuno a guardarti, sono le qualità nascoste di Roger Federer. Potrebbe fare quello che vuole. Tutto. Invece continua a innaffiare il giardino del suo talento. Lo cura, lo rispetta, non si permette di calpestarlo. Ha capito che il lavoro paga. E allora lavora duro. Quando si parla di tennisti da prendere ad esempio si menzionano Nadal, Ferrer, la Errani, nel suo piccolo Paolo Lorenzi. Federer no, lui è considerato un’entità astratta. Sbagliato. Federer è molto più esempio di quel che sembra. Il suo slice non è replicabile, ma la sua professionalità sì. Una professionalità che lo ha portato a due sole partite dal 18esimo Slam.


Gli ostacoli sono grandi. Ad esempio, Milos Raonic. Due anni fa gli diede una lezione di tennis. Il canadese veniva da caterve di ace e ne tirò appena 17 in tre set, incassando un triplo 6-4. I tempi sono cambiati, anche se c’è Ivan Ljubicic che ha lavorato con lui fino a pochi mesi fa e potrà svelare a Roger qualche segreto. Di certo non potrà riferirgli cosa gli ha detto John McEnroe. E’ incredibile, la vicenda dell’ex SuperBrat: assunto come consulente di Raonic per la stagione erbivora, non era nel box mentre Milos teneva a bada con sufficiente agio Sam Querrey. Era sul Centre Court, cuffie e microfono, a commentare Federer-Cilic per la BBC. Incredibile. Non fosse che gli accordi erano chiari, una condotta da licenziamento. Ma McEnroe può tutto, e magari potrà riferire a Raonic quel che ha visto. Federer non aveva speso nulla nei primi match, ma le tre ore e un quarto contro Cilic potrebbero farsi sentire contro il canadese. Però il lavoro paga. Lo sanno anche i bookmakers, che danno Federer favorito anche se non tutte le sensazioni vanno in quella direzione. Il lavoro paga. C’è da ripeterlo come un mantra, specie se si guardano i match avvolti nella bandiera rossa con una croce in mezzo.