IL ROMANZO PERFETTO – La rivalità Federer-Nadal ha trasceso il tempo e diviso il mondo, diventando una sorta di religione. Ma nella sceneggiatura c’era un buco: troppe vittorie di Nadal, troppo poche di Federer. A tempo scaduto, l'Australian Open 2017 ci ha regalato il finale. Per renderlo perfetto serviva che Federer piegasse il destino.
Partiamo un passo indietro. John McEnroe inventava tennis traendo energie dalla quantità di jerk (idiota) che rivolgeva all’arbitro; il suo nemico naturale, Bjorn Borg, era un angelo intinto nell’azoto liquido che aveva deciso di non sbattere più di una volta le ciglia, manco se gli sbagliavano una chiamata sul match point, e continuava a frullare dritti e rovesci aprendo la strada al macabro topspin esasperato degli anni Ottanta. Sampras, il miglior servizio e il dritto più pesante della storia, riusciva nel miracolo di giocare il tennis d’attacco dei tempi di Ascari alla velocità della McLaren di Senna; Agassi, il suo alter ego, vestiva fluo, si mechava i capelli e pareva un cretinotto prelevato da una gang di Las Vegas, almeno finché non iniziava a sparare colpi di controbalzo mai visti prima (e che solo post biografia di J.R. Moehringer avremmo appreso fossero nati da un reato seriale di maltrattamento di minore).
 
Federer e Nadal, due nomi che non riesci manco più a pronunciare separati, come Renzo e Lucia, Otello e Desdemona o Paolo e Francesca pur senza sentimenti amorosi reciproci, sono qualcosa di più e di diverso, di quelle storie fantastiche, un po’ vere e un po’ adattate al copione (“Ghiaccio” Borg, smessa la Donnay nera, era molto più selvatico di Mac; il dio greco Sampras non sapeva dove fosse la Grecia e, portato a visitare il Louvre dalla fidanzata, la minacciò con un «non farmi mai più una cosa del genere» finendo per sposare un’attricetta). Per la durata della loro storia, anzitutto: Agassi precipitò agli inferi, prima di tornare grande e chiudere nel 2006, da vecchio acciaccato (vale la pena rammentare che Federer, oggi, ha la stessa età di quell’ultimo Agassi col cortisone nella schiena che pareva lo zio dei suoi avversari). Sampras, a trent’anni, negli spogliatoi veniva apostrofato dead man walking, uomo morto che cammina. A 26 anni, Borg si sciolse con un Calippo dimenticato sul cruscotto ad agosto sul litorale; McEnroe lo chiamavano vecchio perché rugoso e stempiato, ma l’ultimo Slam lo vinse a 25 anni e quando si ritirò non ne aveva 43 ma 33, e non vinceva più nulla se non una partita ogni tanto, giusto quando dimenticava di essere troppo leggero per il power game di Becker e soci.
Federer e Nadal hanno trasceso il tempo. In un’epoca di velocità, business e tecnologie che logorano, consumano e invecchiano precocemente lo hanno reso un continuum, come sarebbe piaciuto a Spinoza: niente passato, niente futuro.
Si sono incrociati trentacinque volte in tredici anni. Che stesse per innescarsi una circolo virtuoso di battaglie si capì già nel 2005, quando si contesero a Miami la prima finale. Una partita che Roger affannosamente rimontò, da due set e 1-4 sotto, contro quel ragazzino che somigliava a un indio, non spiccicava una parola se non nella sua lingua e non sembrava davvero niente di che mentre colpiva; eppure, il suo stare in campo aveva qualcosa di speciale, un’intensità, un’esplosività, una tigna in concentrazioni spaventose. Tali da annullare la perfezione tecnica e la completezza disarmante di un ragazzo cui era stato affidato il tesoro del tennis più bello mai visto, se è vero che pure McEnroe ammise di non aver mai invidiato nessuno, su un rettangolo di gioco, se non quel tizio butterato col naso a patata, sbucato da chissà dove.
La storia di Roger e Rafa, negli anni, è sublimata in religione. Perché aveva tutto: la classe retrò contro lo spadone, tocco versus fisico, attacco e difesa, languido tango all’ora del tè e concerto degli Iron Maiden. Come tutte le narrazioni, è stata in parte adattata: Nadal non è mai stato quel fabbro che si è voluto far credere, ha un tocco che tre quarti degli attuali top ten si sognano; Federer non è un paninaro postmoderno che gioca rapido per non spettinarsi e detesta dover sudare, anzi, finalmente lo ha ammesso in pubblico: si allena come un disperato. Ma non c’è stato bisogno di forzare troppo la mano: anche se Nike non avesse inventato i pinocchietti e le canotte mostrabicipiti per Rafa, e i completini antipiega col colletto inamidato per Roger, la loro storia sarebbe stata autonomamente immortale. Forse, solo con qualche milione di fatturato indotto e qualche tonnellata di merce piazzata in meno.
A guardarli, domenica, sul palco di Melbourne Park con Rod Laver che li cingeva, un braccio ciascuno, come Clinton con Rabin e Arafat, uno spettatore distratto avrebbe potuto pensare a un’esibizione in onore dei bei tempi andati, magari giocata dopo la finale vera. Invece lo era, la finale vera. Qualche mese fa, ha ricordato Federer, Nadal lo aveva invitato a Manacor a inaugurare la sua accademia. Dovevano giocarsi un set per scherzo e non c’era verso, sembravano due clienti della pensione Anni Azzurri: uno, trent’anni e duecentomila chilometri di corse, col polso fasciato e incapace di tirare un dritto più in là della metà campo; l’altro, over 35, con la gamba che faceva giacomo-giacomo dopo un infortunio da casalinga – una scivolata mentre faceva il bagnetto alla prole. Rafa aveva approfittato della pausa forzata per risolvere il problema dei capelli sempre più radi, con l’autotrapianto dei bulbi. Federer, in vacanza da mesi, si trovava bene a fare il padre di famiglia coi ritmi del lavoratore in mutua e si fotografava col cellulare mentre si perdeva nei campi di grano. Insomma, un clima che più lontano dalla competizione feroce degli Slam non si può.
 
Federer e Nadal hanno diviso il mondo, che domenica si è infine riunito in un abbraccio corale. Due maniere di vedere non il tennis, ma la vita. La nobiltà dell’arte, sostenuta in un’era di bruti e mazzate, e l’umanissima, non robotica resistenza alla resa. Se Federer ha preso per mano il gioco del tennis e ha mostrato cose che mai nessuno aveva osato non tentare, ma pensare, Nadal ha ridefinito il concetto di sport come ribellione alla sconfitta, resistenza al dolore, fiducia nella disperazione, ritmi forsennati, effetti esponenziali. Non è mai esistito, in alcuna disciplina, un atleta con la sua forza mentale, che nessuno – a differenza del talento, che in buona parte è figlio del caso – gli ha regalato.
Ma c’era un buco, nella sceneggiatura. La rivalità tra Federer e Nadal zoppicava: troppe volte aveva vinto Rafa, e via via le scuse erano evaporate. Sì, ma sull’erba vince Roger (fino alla finale di Wimbledon 2008). Sì, ma sul cemento Nadal non ce la fa (fino alla finale degli Australian 2009). Sì, ma indoor Federer è sempre stato il migliore (fino al Master 2013). Il computo diceva 23-11 e no, non c’era modo di ficcare quei numeri in un contesto nel quale lo stesso Rafa, per un bel pezzo, batteva Roger e lo ringraziava per la bella partita chiamandolo “the best” e Federer sarebbe stato il numero uno più grande della storia, a patto di dimenticare l’esistenza di Nadal, rispetto al quale era il numero due.
A tempo razionalmente scaduto, contro ogni logica, nel 2017 ci è stata regalata non una finale ma il finale. Tutti a casa, il numero uno Murray, l’ex imbattibile Djokovic, il superuomo Wawrinka, tutta la “nextgen” di Kyrgios e Zverev. Tutti davanti alla tivù, per l’ultimo Federer-Nadal. Non un terzo turno deciso da un sorteggio beffardo, ma il match per il titolo. In uno Slam, come una domenica di dieci anni fa: robe da matti. E sì, Roger ha ragione quando dice che il tennis è uno sport crudele perché non prevede il pareggio, e che un 1-1 al novantesimo, se da dividersi con Rafa, gli sarebbe andato più che bene. Sono parole che mai avrebbe riservato per altri. Per quattro ore, il pianeta si è girato verso l’Australia: là, stava capitando qualcosa che prendeva l’anima più di Trump, la crisi, i ghiacciai sciolti e la partita di pallone per gli ultrà. Attori, soubrette, golfisti, ministri, scrittori, tramvieri, meccanici, studenti, poliziotti: il web, la nuova agorà, si è trovato intasato di dichiarazioni d’amore, ha dato conto di pianti, capelli strappati, urla omicide sul match point.
E sì, perché tutto fosse perfetto, e spiace davvero per un fenomeno come Nadal, serviva che venisse riequilibrato l’unico tasto sordo dell’orchestra. Serviva che Federer piegasse, come mai gli era riuscito prima, il destino che faceva coincidere la lotta con la disfatta. Tre su cinque, un break di svantaggio al quinto, è sempre stata casa di Nadal e, a giocarsi la vita, solo i folli avrebbero puntato sull’altro. Come sia potuto succedere, dove Federer abbia trovato la pietrolina sporgente cui aggrapparsi per risalire il canyon a mani nude, in svantaggio 1-3 nel set decisivo, non si è compreso se non a cose fatte, a miracolo esaurito. Roger ha ringraziato Ivan Ljubicic, coach pressoché coetaneo e dalla vivissima intelligenza tennistica, non solo per la vicinanza, il lavoro e le solite cose da volèmose bene: «Grazie, Ivan, perché mi hai detto not to play Rafa, but to play the ball». Devi giocare a tennis, non devi giocare contro Rafa. «Se inizio a tenere la palla in campo, se inizio a pensare che non devo sbagliare, lui prende il controllo col dritto, a me tocca correre di qua e di là ed è finita. Questa volta, avevamo deciso che avrei dovuto continuare a spingere: sempre, comunque, fino all’ultima palla, qualunque cosa fosse successa. Se poi Rafa era troppo bravo, va bene, avrei perso. Ma senza aiutarlo a battermi».
Quante volte Federer è stramazzato a terra, abbattuto dalla malattia che Nadal gli aveva inoculato a inizio partita e i cui effetti – le stecche, i “Nein!”, gli scuotimenti di chioma – si facevano via via più evidenti, fino alla morte sportiva? Quante partite Rafa le aveva già vinte prima del sorteggio per la scelta del servitore? A parere di chi scrive – e ogni tanto vi ha raccontato via tubo qualche tappa del glorioso “Fedal” – quel virus è costato a Roger due Slam e altre tre-quattro finali in giro per il globo. La mamma delle sconfitte de testa, sul Tevere, nel 2006. Più del cambio di attrezzo, che ha reso il rovescio più competitivo ed elevato il servizio da ottimo a eccellente, è stata la nuova consapevolezza a rendere l’ultimo, grande Federer-Nadal il romanzo perfetto. Perché proprio quel capitolo mancava e ciascuno di noi era certo sarebbe rimasto incompiuto: l’uno, il puro, il maestro, che scava a mani nude nella roccia, sanguina e forza un destino segnato facendosi, una volta tanto, cannibale dell’altro. Era inimmaginabile, è successo.
Nel tourbillon di parole ed emozioni, avevo scordato un messaggio criptico ricevuto da Ivan Ljubicic, lampeggiato sullo schermo alle 22:28 di sabato, fuso australiano: «Io ci credo. Devo far credere anche lui, e siamo a posto». Solo adesso l’ho capito.

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