Il quarto di finale tra Draper e Shelton a Indian Wells ridà lustro alla particolarità e peculiarità dei giocatori mancini, unici nel loro genere

Foto di Ray Giubilo

Ammetto un debole per i giocatori mancini! Un po’ per averne avuti di un certo spessore, un po’ per la creatività che rende ognuno di loro unico e irripetibile. Una ricerca statunitense ne rileva addirittura la capacità di risolvere problemi complessi più agevolmente dei destrosi.
Non posso che assecondare quel che la scienza afferma e aggiungere, di mio, che tale è in essi il peso dell’istinto da mal sopportare condizionamenti di sorta alla naturale gestualità.

Geniacci, insomma, di cui non perdo occasione per amplificarne qualità e presentazioni. Questa volta il facile assist mi giunge dal quarto di finale consumato ieri da Ben Shelton e Jack Draper, sul cemento di Indian Wells. Un duello stupendo, ricco di quelle angolazioni un po’ ‘sguince’ che solo i tennisti di mano sinistra sanno trovare: servizi esterni frustati da sinistra, passanti stretti,  smorzate spacca gambe e lob calibrati come Iddio comanda. Un tennis sanguigno espresso di cuore prima che di braccio, un gioco che ha riservato anche all’occhio più esigente soluzioni di grande fattura solo apparentemente fuor di logica.

La svolta è stata nella troppa esuberanza dello statunitense, finita per infrangersi contro il contenimento d’acciaio messo in atto dal britannico nelle retrovie. A ridosso dei primi dieci del mondo, Shelton e Draper hanno tutti i numeri per portare nelle zone alte della classifica l’ennesima testimonianza di un tennis che negli anni ha prodotto personaggi di valore assoluto.