Thomas Fabbiano è riuscito nell’impresa di sopravvivere ai 67 ace del gigante americano Reilly Opelka (due metri e 13) e a un primo set buttato via, dopo essere stato avanti nel tie-break per quattro a zero, poi perso 17-15. Ha vinto con un altro tie-break, nel set decisivo, con la formula dei dieci punti. L’ha dominato (10-6) giocando un tennis pulito, ordinato, come piace dire a coach Piatti, nella cui accademia si è rifugiato quest’inverno per preparare al meglio l’inizio di stagione. L’urna è stata benevola offrendogli ai primi due turni Jason Kuebler e, appunto, Opelka, due ottimi giocatori, ma giocabili. Al terzo turno, l’asticella si alzerà notevolmente: affronterà Grigor Dimitrov, senza niente da perdere. E per conoscere meglio la storia di Fabbiano (inspiring, direbbero gli americani), abbia recuperato l’articolo del mese di novembre 2017 della nostra rivista, quando Federico lo andò a trovare a Foligno, dove all’epoca si allenava con Fabio Gorietti.
Rafa Nadal, 16 Slam e una sequela di trionfi lunga così, dice di averci costruito una carriera, sull’arte del dubbio. Mettersi in discussione è una sana abitudine anche per Thomas Fabbiano, soprattutto da quando, cinque anni fa, ha piantato il pennone alla scuola di tennis di Fabio Gorietti a Foligno («A differenza di tanti suoi colleghi, però, il rapporto non finisce al termine dell'allenamento. Viviamo in una realtà piccola, un ambiente che ti dà tranquillità per poter parlare di tutto; è il tuo coach ma ti fa anche crescere come persona»). Cinque anni fa significa 2012, ranking in stallo tra il 200 e il 300 a 23 anni: poteva già essere maturo il momento di decidere cosa fare della propria vita. Nel suo paese in provincia di Taranto, San Giorgio, lui era ancora il figlio del sindaco e non un tennista di professione; perché da noi è così, se non ti vedono in televisione vuol dire che non sei, e Fabbiano era uno che aveva da raccontare più del proprio passato, di promessa italiana insieme a Daniel Lopez e Matteo Trevisan (mai pervenuti), che del proprio presente gramo. «In effetti, anche io iniziavo a chiedermi che senso avesse giocare altri sei o sette anni, per restare con la classifica che avevo». Domande lecite, per un ragazzo riflessivo e dai bei modi, abituato a dire grazie e prego, maleducato soltanto quando tira il suo dritto, un giovane uomo che una volta avrebbero racchiuso nella formula parrocchiale della persona “di sani princìpi”. «Sarò all’antica, ma se rompi la racchetta con violenza è giusto che tu venga punito. Anche se l'attrezzo è tuo e non fai del male a nessuno, perché magari la tua partita finisce in televisione e un bambino ti sta guardando e dai un brutto esempio a un ragazzo che non ha ancora l'età per decidere se è una cosa buona o cattiva. Poi certo, a casa puoi anche sorridere se Fabio (Fognini, nda) fa una scenata o se Kyrgios frantuma la racchetta, però…». Però dare della passeggiatrice a un arbitro o prendere in giro la gente che ha pagato un biglietto, forse, vanno leggermente al di là dell’espressione di un carattere estroverso e nascondono, semmai, una penuria cronica e sconsolante di educazione.
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Per Thomas Fabbiano, giocare a tennis è tutto sommato semplice, e non solo perché sente che è qualcosa di più di un mestiere. Difficile si ingarbugli: col dritto colpisce tutto quello che può, è un movimento pulito, un’accelerazione secca e fluida, da cemento. Il resto, servizio su tutto, è un cantiere, ora che di là dalla rete puoi davvero trovarti chiunque, extraterrestri compresi. Se c’è da allenarsi un’ora in più per sistemare qualcosa, non scappa. Anzi: prende Federico Torresi, che lo ha seguito spesso quest’anno, e lo mette a sparargli servizi da metà campo perché metti che, tra una settimana o due, uno debba rispondere sul veloce a Isner o Raonic. Meglio prepararsi al peggio. Ecco, il servizio: allo US Open, contro Paolino Lorenzi che da ragazzo la buttava appena di là con una specie di azione a catapulta e ora ha un signor colpo, ha perso anche per la mancanza della risorsa regina dei giocatori in difficoltà. Ma non ci sono stravolgimenti in arrivo, nel 2018: «Sul servizio abbiamo anche provato a lavorare per aumentare la velocità e gli ace. Abbiamo capito che, nel mio caso, sono le percentuali alte e i piazzamenti, quelli che mi fanno vincere. Abbiamo analizzato molte partite e le abbiamo incrociate con le mie sensazioni in campo: ci siamo accorti che riesco a dare il meglio quando metto tante prime in campo e inizio a "lavorarmi" lo scambio. Se ho una palla break da salvare, per esempio, non cerco il vincente ma tiro al corpo e spero di poter entrare col dritto». Lo schema prediletto non è un segreto: «Scrivilo pure, tanto se tirassi veloce negli angoli non riuscirei a colpire ai 220 all'ora e avrei basse rese: quindi, anche se lo sanno tutti, io continuo a mirare sempre lì, all’ombelico».
Essere il numero uno di una delle scuole tennis private migliori d’Italia è il segno di un cammino puntato là, dove tutti hanno lavorato perché si arrivasse. «Questa è un’accademia, nessuno ha un coach a disposizione al cento per cento. Se sono diventato un riferimento, nel senso di un giocatore che con sacrifici e miglioramenti costanti ha saputo raggiungere risultati buoni restando in un ambiente sereno, io sono più che felice. E non dico che allenarsi qui significhi automaticamente entrare nei primi cento», anche se gli esempi di Luca Vanni e di Stefano Travaglia (125 ma in accelerazione, salvo infortuni) lo suggeriscono. «Però c’è una bella competizione, prima con Luca, che mi spiace se ne sia andato, e adesso con Stefano e Quinzi. Con Gianluigi mi alleno spesso, mi piace, sia per come gioca sia per il carattere che ha. Non ha fatto quel “salto” che tanti, me compreso, si aspettavano, però sono sicuro che nei prossimi due anni ce la farà. Fabio Gorietti sa dove mettere le mani». E se lo dice lui. Il 2018 di Thomas Fabbiano sarà un anno di sfide: con quella classifica tanto inseguita e finalmente abbracciata, si avvicinano nuovi ostacoli. Dovrà frequentare più tornei di alto livello, guadagnarsi la residenza tra i grandi; finora, contro i top cento, le vittorie sono state rare. Altri dubbi in arrivo. «Ma è la vita del tennista, è complicata: questo continuo cercare miglioramenti, la solitudine… ti esaurisci. Se lo giochi a livello basso ti dà piacere; come lavoro, a meno che non sia un processo spontaneo, meglio lasciar stare. C’è gente che ha passato anni a parlarsi da sola in campo, in hotel, in aereo, ti abitui a un’adrenalina che poi nella vita normale non hai più. Infatti capita che alcuni, dopo aver smesso, sperperano tutto quello che hanno, non sanno gestirsi. Avessi un figlio non gli farei fare il professionista, mi sono accorto sulla mia pelle che poche persone riescono a mantenersi. Farei come mio padre con me: libero di prendere tutte le decisioni, dando consigli ma senza sostituirsi nelle scelte». Ma allora perché spremere tanto sudore e lacrime? Per il piacere di giocare? «Di vincere. Vincere, perché è diventato un lavoro, se non vinco non porto a casa niente. Il piacere è altrove: giocare negli stadi pieni che si scaldano dopo un gran punto. Il piacere di affrontare Federer, Nadal o Djokovic. Ancora oggi, quando li vedo in tivù, mi sento lo scolaro che a 12 anni metteva la sveglia di notte per guardare gli Australian Open. Solo che adesso so che posso alzare gli occhi verso il tabellone e leggere, che ne so: Federer contro Fabbiano». E poi sentire “Ready? Play” e doversela giocare, anche con Roger e gli altri fenomeni. Lo ha voluto fortissimamente, è stato accontentato.