Vulnerabili lo siamo tutti, anche e soprattutto i tennisti, in un’epoca in cui la pressione per il risultato è opprimente. Ma questa apparente debolezza può trasformarsi in una forza

foto Ray Giubilo

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scriveva il poeta. Questi giorni autunnali, crepuscolari, sospesi tra un anno di tennis italiano pieno di successi e il grande finale di stagione, in attesa di Torino e Malaga, sono un’occasione propizia per riflettere sulla debolezza e sulla
vulnerabilità, anche dei tennisti
. Dall’esterno paiono granitici, sempre concentrati sul prossimo punto e sulla lotta a distanza con chi sta dall’altra parte della rete. E invece anche loro sono vulnerabili, eccome, nella solitudine interiore che nessun “team” può colmare! A maggior ragione in un’epoca in cui si gioca sempre di più, a ritmi sempre più alti.

Il motto olimpico, adottato nel 1894 ma usato per la prima volta nel 1924, è “citius, altius, fortius”, “più veloce, più in alto, più forte”. Poi nel 2021 si è aggiunto “communiter”, “insieme”, anche se pochi lo sanno… E comunque no! Prima o poi bisogna andare più lentamente, più in
profondità e anche più debolmente.
La vita ci spinge a farlo, volenti o nolenti, e non è detto che sia un male. Ce lo ha ricordato recentemente in una intervista a cuore aperto il talentuoso Grigor Dimitrov, ormai nella fase calante della carriera, pur con picchi di grande bellezza. Grisha, sul quale in giovinezza ha aleggiato la “maledizione” della nomea di Baby Federer, ha rivelato di aver sofferto di ansia e attacchi di panico. Ha ammesso che “mostrare le proprie vulnerabilità non è una debolezza, ma piuttosto una grande forza. Questo è un messaggio potente, soprattutto in un’epoca in cui la pressione sui giovani atleti per raggiungere risultati eccezionali è più alta che mai”.

Dunque? È vero il paradosso reso celebre da un bel libro di Stefano Massari, “O vinci o impari”? Credo di sì, e l’esperienza e l’adesione alla realtà ce lo mostrano, se vogliamo ascoltarle. In ogni caso è interessante anche il solo parlare di questa vulnerabilità, metterla al centro della discussione. Dirlo ad altri, di persona, faccia a faccia, communiter!
Aggiungiamo, al riguardo, il contributo di una frase già citata in questo spazio, copyright Paolo di Tarso: “Quando sono debole, è allora che sono forte”. Più la ascoltiamo, più ci dà a pensare. Soprattutto in un contesto, tennistico e sociale, in cui si colpisce sempre più forte, si va
sempre più veloce, e la debolezza sembra bandita: chi si ferma è perduto e chi perde si ferma, ci dicono. Ora non pretendo che tutti accettino il motto della tradizione spirituale cristiana “O beata debolezza”… ma almeno che si provi a valutare la vulnerabilità come capacità di essere “feriti”, aperti, esposti all’altro. Vivi. Per colpire la pallina da tennis con una vitalità nuova. Certamente più umana. Perché a volte fare una finta che trae in inganno e sorprende l’Avversario, come un dropshot improvviso, è più sapiente che pretendere di sfinirlo con la forza. Anche se magari si perde. Ma domani si può ricominciare. Anzi, oggi.