Il giudice di sedia ha decretato l’inizio del gioco e Sampras si predispone a servire sollevando la punta del piede anteriore mentre lancia alta la palla in quel modo tutto suo. Non ero mai riuscito a vedere Sampras giocare dal vivo, ed è un atleta molto più bello di quanto sembri in tv. Non è particolarmente alto né muscoloso, ma ha un servizio dall’effetto quasi wagneriano e da distanza così ravvicinata si vede che è perché Sampras ha un misto magico di flessibilità e tempismo che gli permette di riversare tutto il peso della schiena e del busto nel servizio – l’intero corpo scatta come di norma solo un polso sa fare – e che dipende dalla posizione curva e raggomitolata da cui avvia i movimenti del servizio, sollevando solo la punta del piede anteriore e prendendo la mira da sopra la racchetta come se avesse una balestra, una serie di movimenti che in tv sembrano tic eccentrici ma che dal vivo danno l’impressione che il corpo sia un unico grosso muscolo, una specie di anguilla arrabbiata pronta al guizzo.
Philippoussis, che tra un punto e l’altro ama fare un piccolo balletto sul posto, aspetta il servizio senza tradire la minima espressione. La fascia che ha in testa si abbina alla maglietta a strisce tipo caramella. I display dei tabelloni segnapunti ora sono programmati per tenere il punteggio anziché lampeggiare pubblicità. Il nome di Philippoussis si ritaglia una bella fetta orizzontale di ogni tabellone. La parete tra lo Stadium e il Grandstand (a E rispetto a noi) è sormontata dalla tribuna stampa che la percorre per intero e fondamentalmente sembra la più grande casa mobile del mondo, gli scuri alle finestre calati contro il sole pomeridiano. Tre punti hanno dato come risultato un ace, una risposta vincente e un lungo scambio che si conclude quando Philippoussis scende a rete invitato da una palla non esattamente indirizzata sul rovescio e Sampras cerca l’angolino alla destra del rettangolo di servizio caricando incredibilmente il colpo. La ferocia del rovescio di Sampras è un’altra delle cose che la tv non comunica bene, il suo controllo sull’ovale della racchetta fa pensare più a quei colossi da terra battuta con gli avambracci come cosce di bue, il topspin così caricato da distorcere la forma della palla mentre il passante cade giù a piombo.
Il malvagio ma cyborghiano Philippoussis finora non ha tradito niente che somigli a una vera espressione facciale. Si direbbe che nemmeno sudi13. Due tipi attempati nella fila subito dietro la mia esortano Sampras sottovoce, chiamandolo «Petey», e mi viene spontaneo pensare che siano amici o parenti. E appollaiata sopra la tribuna stampa – cioè più o meno all’altezza dell’antenna di una stazione radio – c’è una pubblicità che gli US Open 1995 fanno a se stessi. È l’enorme stampa puntinista nei colori pastello di un pubblico dello Stadium Ntc intorno a un campo smisurato, la prospettiva stranamente scorciata e il famoso skyline di Manhattan immediatamente sullo sfondo come decisamente non si staglia nel vero Flushing Meadows del Queens; e sopra e oltre il cartellone la grossa zucchina del dirigibile della Fuji Inc. galleggia lenta contro il ceruleo del cielo estivo di gran lunga più bello che abbia mai visto a New York City. Non solo l’aria del weekend del Labor Day agli Open 1995 è priva di umidità e intorno ai ventisei gradi, il sole cocente, il vento leggero e il cielo dell’azzurro troppo vivido di un film colorato, ma l’aria del cielo è limpida, l’aria ha il profumo buono, intenso e dolce dei panni stesi ad asciugare, risultato non solo di un mese senza pioggia ma anche di un assurdo fronte di alta pressione che questo weekend è frullato fuori dallo spazio aereo sopra la Nuova Scozia spazzando gli ossidi e le puzze che NYC si merita e spedendoli sul New Jersey.”
vedi arrivare loro, Loro, un’enorme massa serpentina, gli spettatori che ancora arrivano alle 16.15 e visti da questa distanza sembrerebbero tutti i newyorkesi che non si sono rifugiati negli Hamptons per il lungo weekend estivo. Gli US Open sono un grande evento per NYC. Il sindaco Dinkins non c’è più – quel Dinkins che faceva deviare le rotte di atterraggio all’aeroporto LaGuardia apposta per gli Open – ma, anche sotto Rudy Giuliani, per due settimane una città che di norma non darebbe un soldo bucato per uno sport aristocraticamente privo di contatto fisico come il tennis mostra grande partecipazione. Al Bowery Bar arbitraggisti trentenni in smoking non a noleggio dissezionano le partite e speculano su come la temporanea assenza della Seles dai campi da gioco condizionerà i suoi contratti pubblicitari ora che è tornata..
I portieri croati lamentano la prematura uscita di scena di Ivanisevic. In metropolitana, un drappello di ragazzotte toste in tenuta di pelle e capelli fosforescenti conviene che anche se la Graf, la Seles e la spagnola con quella faccia e l’imene15 nel nome potrebbero dominare la classifica, guai a scordarsi dell’americana Zina G. che questo è il suo canto del cigno prima, tipo, che esca di scena. Oppure, per esempio, venerdì primo settembre, il giorno dopo la rinascita di Agassi in cinque set contro Corretja, un conducente di autobus libanese della Grey Line in servizio dall’aeroporto LaGuardia si ritrova perfettamente d’accordo sulla riabilitazione di Agassi come uomo con un anziano passeggero masticatore di sigaro mai visto né conosciuto:
Fatto sta che arrivano, quarantamila ieri e quarantunomila oggi, pronti a scucire venticinque-trenta dollari per un biglietto, sempre che riescano a procurarselo17. Arrivano con la metropolitana infernale e stigia dell’Irt scendendo al capolinea della linea 7, la fermata Shea-Willets. Convergono nel Queens NE tramite le autostrade Van Wyck, Long Island e Whitestone, tramite l’Interborough, la Grand Central Parkway, il Cross Bay Boulevard, portandosi dietro quattrini in quantità e qualunque santino aiuti a trovare parcheggio. I residenti solcano i canyon deserti di Manhattan a bordo di limousine, taxi o autobus durante il weekend del Labor Day, puntando alla Trentaseiesima Strada e al Tunnel o alla Cinquantanovesima e al Queensborough Bridge, poi impiegano una vita a risalire il Northern Boulevard, armati di borse termiche, coperte, racchette, cuscini da mettere sotto il sedere con la scritta GIANTS o JETS, protezioni solari e cappellini ricordo degli Open dell’anno scorso, risalgono il Northern Boulevard sovrastati dai ghirigori del traffico aereo finché non vedono spuntare i primi baluardi: il tozzo anello azzurro-neutrone del vicino Shea Stadium; l’enorme sfera armillare d’acciaio e la torre di fattura grossolana del World’s Fairgrounds ’39 attigua al National Tennis Center nel Flushing Meadows Corona Park18.
Il cancello principale dell’Ntc è sul lato NE del complesso, collegato alla fermata della linea numero 7 e ai parcheggi da un’ampia passeggiata di cemento che dalla stazione S dei pendola- ri sfila davanti agli uffici dei guardaparco e a un paio di grossi circoli comunitari all’aperto – il genere di piazzole urbane all’aperto che al centro dovrebbero avere una fontana zampillante, anche se queste non ce l’hanno – con le panchine verdi, le intricate piste da skateboard e un commercio sottobanco vigoroso e sinistro. A un certo punto la passeggiata curva bruscamente a O e la ressa mobile degli Open sfila sotto gli occhi dei tanti che fanno picnic e giocano a calcio all’Fmc Park (nei prati a cui allude il «Meadows» del nome, evidentemente); dopodiché l’ultimo rettilineo asfaltato del passaggio pedonale è racchiuso da alte recinzioni sormontate dalle bandiere di tutte le nazioni andando verso le linee parallele dell’ingresso vero e proprio al cancello principale del torneo, cancello che è di per sé un’alta recinzione di ferro nero di una solidità quasi medievale, sormontata a sua volta solo dalle care vecchie bandiere americane, con i soliti saluti e l’autorevolezza degli Open/Usta riportati in sfrontate lettere maiuscole luminose di 160 punti su un’insegna appesa sopra i tornelli, tornelli che sono sei in totale anche se non ce ne sono mai più di tre in funzione. I tornelli sono riservati a chi ha già il biglietto19 – la lunga fila da blocco sovietico al botteghino per i biglietti della mattina evapora puntualmente intorno alle undici, quando risoluti megafoni annunciano per quel giorno il tutto esaurito.”
Oltre a Stadium/Grandstand, ci sono altri tre «Show Courts» all’Ntc, campi cioè con gradinate degne di questo nome. Alle 16.40 nel Campo 16 si tiene il doppio maschile con Eltingh-Haarhuis, la squadra numero 1 al mondo, e il piccolo cuneo di spalti in alluminio non è nemmeno pieno. Il pubblico tennistico americano sembra orientato decisamente verso i singolari. Il Campo 17 vede schierati Korda e Kulti contro il matto delle Bahamas Mark Knowles e Daniel Nestor, suo compagno del 1995, il canadese che a guardarlo è uno spasso per quanto somiglia a un Mick Jagger anoressico. Nel Campo 18 si tengono i doppi femminili con quattro giocatrici dai nomi a me ignoti e ben trentuno spettatori sugli spalti. (Le quattro donne del 18 hanno tutte gli avambracci più grossi dei miei). Natasha Zvereva, che sembra incompleta senza Gigi, è nel Grandstand a riscaldarsi contro Amy Frazier.
La cosa divertente nell’avere un pass stampa agli US Open 1995 è che puoi entrare e uscire dal cancello principale tutte le volte che vuoi. Gli spettatori paganti non hanno questa fortuna: un cartello vicino ai tornelli dice, con tanti punti esclamativi, che chi esce poi non rientra più. E le file per entrare ai tre tornelli in funzione ricordano le lugubri foto del pubblico che se ne va scalpicciando alle partite di calcio del Terzo Mondo. Il torneo paga certi vecchietti incartapecoriti per stare ai tornelli a ritirare i biglietti degli spettatori – gli stessi vecchietti incartapecoriti che vedi ai tornelli delle manifestazioni sportive di ogni dove, di quelli a cui sembra sempre che manchi il fez da Shriner. In questo momento, sono le 17.38, a superare uno dei tornelli è un bel nero pelato con uno sciccosissimo abito di cammello Dries Van Noten. A spingere con il fianco il tornello accanto23 è una donna in tailleur pantaloni blu elettrico di seta o di ottimo rayon. Al terzo tornello in funzione un tipetto giovane dall’aria straniera con una costosa camicia a quadri, i Ray-Ban e un telefono cellulare discute col bigliettaio. Il ragazzo sostiene di aver comprato i biglietti per il 3/9 ma di averli sbadatamente lasciati a casa a Rye e col ca-vo-lo che un bigliettaio incartapecorito col minimo salariale lo costringerà a farsi tutta la strada fino a Rye per prenderli e poi a rifarsi un’altra volta tutta la strada per tornare. Stringe il cellulare stando addosso al bigliettaio: deve pur esserci il modo, insiste, di verificare l’acquisto dei biglietti senza bisogno di fare avanti e indietro per esibire quegli stupidi rettangolini di cartone. Il bigliettaio, in un completo blu che gli dà un po’ l’aria del controllore ferroviario, scuote la testolina nodosa e solleva le braccia nel gesto al tempo stesso impotente e irremovibile del: «Non so che farci, caro mio».
Vicino allo strillone c’è una strepitosa automobile Infiniti nuova fiammante su una complicata pedana che le dà un’angolazione decisamente a strapiombo. Non si capisce quale sarebbe il nesso tra una bella automobile nuova e il tennis professionistico ma la concomitanza visiva di auto e angolazione a strapiombo è impressionante e avvincente e intorno all’Infiniti c’è sempre una fitta cerchia di spettatori che la guardano senza però toccarla. Poi, sopra la spalla destra del venditore di «Daily Drawsheet» e situata guarda caso vicino al botteghino dei biglietti in prevendita, ecco quella che dev’essere una delle più grosse postazioni bancomat del mondo occidentale, con la sua brava tettoietta e ben tre sportelli dotati di complessi e sofisticati controlli tipo-Nasa ed enormi cartelli con su scritto che il servizio è generosamente offerto dalla Chase e che è in grado di erogare denaro tramite le reti Nyce, Plus, Visa, Cirrus e Mastercard.
Le file al bancomat sono così lunghe da creare complicati intrecci con le file agli stand più vicini. Stand che sembrano aver subito una specie di metastasi rispetto all’anno scorso: ormai infestano ogni angolo dell’Ntc. Ho il forte sospetto che la verità su come si ottenga una concessione per vendere prodotti agli US Open rivelerebbe intrallazzi e pastette da far impallidire lo spettacolo che si tiene sui campi da gioco, perché se c’è un luogo dove lo spettatore viene davvero separato dal suo denaro è agli stand dell’Ntc, che fanno tutti affari al ritmo di ferramenta e supermercati costieri durante l’allerta per un uragano. Le singole postazioni dotate di piccoli ombrelloni della Evian e della Häagen-Dazs sono niente in confronto al fuoco di fila dei centri commerciali in miniatura che costeggiano quasi ogni marciapiede, passerella e via d’accesso – inclusa la galleria anulare al piano terra di Stadium/Grandstand – e che vendono gazzose tra i due dollari e cinquanta e i tre dollari e cinquanta, acqua a tre dollari, piccoli cartocci di nachos o di patatine rotonde a trama incrociata con l’olio che impregna subito il cartoccio a tre dollari, birra a tre dollari e cinquanta, popcorn a due dollari e cinquanta26 eccetera27.Un gigantesco boato che fa traballare l’intera sovrastruttura dello Stadium indica che le forze della democrazia e della libertà umana hanno vinto il terzo set28. È chiaro che Sampras ha trovato la sua altitudine di crociera e che Philippoussis dovrà accontentarsi di aver vinto il primo set, farne tesoro e andare a casa a sollevare altri pesi in vista della stagione indoor dell’Atp.
25 Il «Daily Drawsheet» ha la particolarità di essere l’articolo più economico degli US Open 1995. Segue una gazzosa piccola carica di ghiaccio a due dollari e cinquanta.
28 E, tanto per essere adeguatamente colpiti dal volume di consumazioni agli stand, va tenuto presente che procurarsi qualcosa mentre si assiste a una partita di professionisti non è impresa facile. Prendiamo lo Stadium. Puoi allontanarti dal posto solo durante i novanta secondi di interruzione dopo i game dispari, dopodiché ti tocca fare una specie di slalom giù per le scale gremite dello Stadium fino allo stand più vicino, sorbirti una lunga fila hobbesiana, sganciare una cifra da frode e risalire faticosamente le scale, contorcendoti e zigzagando per evitare gomiti capaci di spedire la merce acquistata a caro prezzo a far compagnia a quella già finita sul croccante sub- strato organico che stai calpestando… e ovviamente quando trovi le scale che conducono al tuo settore di posti i novanta secondi di interruzione del gioco originari sono finiti da un pezzo – come del resto quelli successivi, il che significa che ti sei perso come minimo due game – il gioco è ripreso e i sorveglianti vicino alle grosse catene sbarrano l’accesso e tu rimani impantanato in un corridoio di cemento privo di ventilazione sul pavimento appiccicoso e in pendenza, strizzato tra un ammasso di gente che come te è uscita a prendersi qualcosa e ora aspetta il break successivo per tornare al posto, e ve ne state tutti lì accalcati tra il ghiaccio che si scioglie e i crauti che si congelano cercando di mettervi sulle punte per sbirciare il minuscolo arco incatenato di luce in fondo alla galleria e cogliere magari il barlume verde della pallina o un frammento surreale della coscia sinistra di Philippoussis che nel frattempo si catapulta a rete… La pazienza dei newyorkesi per folle, file, frodi, e attese fa davvero effetto se non ci sei abituato; se ne stanno buoni buoni in luoghi asfittici per periodi lunghissimi, negli occhi quella combinazione puramente newyorkese di meditazione zen e depressione clinica, un’infelicità dichiarata mai condita da una lamentela.