Tre mesi senza Jannik e qualche decina senza Roger Federer. Così, per non dimenticare…

foto Ray Giubilo

Se il Direttore ha scritto un gustosissimo pezzo sui tre mesi che ci attendono senza Sinner, io oso reimmergermi nel passato. Parlando di chi? Ovviamente di King Roger, anche per non dimenticarlo, come chiedeva sempre il Direttore un paio di anni fa, in un articolo – ironia della sorte – oggi irreperibile in rete.

Scartabellando nei miei appunti torno dunque a sabato 18 novembre 2017, Londra. Dopo aver visitato il giorno prima la National Gallery, mi accingo a contemplare l’arte in movimento. Mi ronzano in testa, non so perché, le note di D. Bowie, “We can be heroes just for one day”. È presto quando arrivo alla O2 Arena, per assistere alle semifinali delle Finals. Prendo posto a circa 15 metri
dal campo. Gli altoparlanti sparano musica a tutto volume. Nulla a che vedere con il tempio naturale di Wimbledon, teatro di una vera e propria liturgia. Poco importa: la bellezza del “sacro tennistico” (questo è stato, è e sempre sarà Federer) avrà la meglio anche sul dio denaro, mi dico.
Due ore prima della partita il Re irrompe in campo, per il riscaldamento. Non sono pronto, vacillo. Già si intravedono piccole magie: nel servizio variato, nel rovescio tagliato, in quello “frustato”. A rete, poi, Roger è come nel suo salotto. Colpisce la naturalezza dei gesti, l’apparente assenza di fatica: il tutto riassunto nel ritmico movimento dei piedi, saltellando su ogni pesantezza.

Sono di fronte a un’umanissima epifania della grazia, lo so. Alle 14 la partita comincia. Preceduta dagli elementi classici di una liturgia profana, inizia. E poi, proprio oggi, Roger decide di perdere: 6-2 3-6 4-6, in meno di due ore, contro l’onesto David Goffin, da lui sempre sconfitto in precedenza. Roger domina il primo set in mezz’ora. Quando capisco che non c’è partita, mi concentro sulla bellezza dei colpi: il servizio in cui lo sguardo si stacca dall’avversario con sorprendente ritardo, a palla in volo; le traiettorie
impossibili generate dal suo dritto; le inattese palle corte, che costringono l’altro a rincorse inutili; gli scambi in cui Roger prepara il rovescio lungolinea da affondare come colpo del ko a campo aperto… Il tutto a una velocità impressionante, da parte di entrambi i contendenti, di cui solo dal vivo ci si rende conto. Anticipo di paradiso? Se ci sarà, potrà essere molto diverso?

Nel secondo e terzo set, tutto si capovolge: “Don’t say cat…” Roger spreca palle break, si innervosisce senza darlo a vedere: i suoi colpi sono in lievissimo ma decisivo ritardo, mentre a Goffin entra inesorabilmente tutto! Il pubblico, prima baldanzoso, poi silenzioso, al momento del match point è incredulo. Io di più. Ed eccoci all’abbraccio finale, a rete, dove in modo signorile
Roger si complimenta con il suo avversario. Mentre l’altro, gettata la racchetta a terra, è come travolto da ciò che è appena successo.

Acquisiscono un senso diverso le parole di D. Bowie, diffuse degli altoparlanti. Lo stesso Goffin sembra confermarne un’interpretazione beffarda. Il vero eroe, just for one day, è lui, come dice nell’intervista: “Era il mio giorno”. Mi torna in mente un altro brano, diffuso dagli altoparlanti nelle pause della partita: “Sono solo umano, dopo tutto, non incolpatemi!”. Oggi Roger ci ha
insegnato che anche la bellezza, come ogni manifestazione umana, è caduca
. Oggi la bellezza si è improvvisamente interrotta. È stata comunque a tratti intensissima, purtroppo senza che io me ne sia reso conto del tutto, in diretta. Se ve ne fosse stato bisogno, ho compreso definitivamente che il tennis è tutta questione di timing. È forse diverso per la bellezza o per il “sacro”, qualsiasi cosa sia?
Quanto spesso non la capiamo sul momento, ma ci ripensiamo dopo o lo immaginiamo prima, frustrati o sognanti? No, occorre “riconoscere il kairós della visita”, direbbe l’Uomo di Nazaret, il qui e ora propizio e irripetibile. E non smettere di ricordarlo.