IL CASO – La disparità di montepremi vista da un’altra prospettiva. Il tennis è un ‘rischio d’impresa’: non sta scritto da nessuna parte che un giocatori di secondo piano debba ostinatamente continuare a giocare.
Di Riccardo Bisti – 8 gennaio 2015
E’ sempre più acceso il dibattito sui prize money. Negli ultimi 2-3 anni si è levata un’onda d’indignazione sulle profonde disparità tra i più forti e tutti gli altri. Mentre ai piani alti si guadagnano un mucchio di soldi, più in basso c’è chi fatica a sbarcare il lunario. I lettori di TennisBest conoscono bene l’argomento, cui abbiamo dedicato decine di articoli, storie e situazioni. La campagna di comunicazione è diventata talmente forte da convincere che la situazione attuale, così com’è, sia una profonda ingiustizia. Persino ATP e ITF hanno studiato qualche soluzione per venire incontro ai tornei più piccoli. In effetti, non c’è dubbio che i top-players intaschino cifre da capogiro e centinaia di tennisti guadagnino meno di un cassiere del supermercato. Per una volta, tuttavia, proviamo a osservare il problema da un’altra prospettiva. Tempo fa, il CEO ATP Chris Kermode ha detto che i tornei challenger devono essere una linea di passaggio per arrivare nel circuito maggiore. “Non deve passare il messaggio che un tennista possa costruirsi la sua carriera esclusivamente su questi tornei”. Ha perfettamente ragione. Il problema non ha a che fare tanto con i prize money, bensì con i giocatori (e sono tanti) che non si rassegnano a inseguire il loro sogno. I prize money sono ben definiti e si conoscono in anticipo. Più vinci, più guadagni: non esiste un criterio più meritocratico. Quando Rafael Nadal e Serena Williams perdono al primo turno, incassano esattamente la stessa cifra di tutti gli altri perdenti. Nel calcio, invece, un Cristiano Ronaldo e un Messi percepiscono lo stesso stipendio anche se perdono o giocano malissimo. Dice: “Però i top-players hanno sponsor importanti che li coprono d’oro”. Vero, ma quasi sempre i contratti pubblicitari derivano dai risultati sul campo. Pensate che Federer avrebbe gli stessi accordi se avesse avuto i risultati di Michael Lammer? Per arrivare a certi livelli bisogna essere bravi, non sperare nei regali. Facendo un paragone con il calcio, i tornei challenger e i futures possono essere paragonati alla serie B e alla serie C (o Lega Pro, che dir si voglia). Normale che nelle serie inferiori si guadagni di meno. Negli Stati Uniti ci sono le leghe inferiori di baseball, i cui giocatori non sono quasi mai considerati professionisti. Nel tennis, invece, sono considerati tali quasi tutti quelli che hanno almeno un punto ATP (e sono più di 2.000). Ma al di sotto di un certo livello, il concetto di “professionismo” andrebbe rivisitato.
IL TENNIS E' UN INVESTIMENTO
Al contrario, c’è una corrente di pensiero secondo cui il tennis è uno sport fortemente elitario in cui i più forti succhiano guadagni a tutti gli altri. Circa un anno fa, il sito “Grantland” ha pubblicato un articolo dal titolo “The future is Bleak” in cui si diceva che il tennis è lo sport più crudele con i giocatori di secondo piano. Citava i casi di alcuni giocatori (Evan King e Jason Jung, rispettivamente n. 379 e 590 ATP), paragonando i loro guadagni a quelli del cestista Trey Burke, stellina degli Utah Jazz. A ben vedere, il paragone non regge perchè Burke è uno dei migliori rookie del basket americano. Il draft NBA ha circa 60 giocatori: il 379esimo rookie del basket, probabilmente, non ha chance di giocare in NBA. Così come il 379esimo calciatore italiano (che nessuno sa chi sia, ovviamente) difficilmente guadagnerà a sufficienza per permettersi di non lavorare a fine carriera. Per intenderci, la carriera del tennis è un investimento su se stessi. Come ogni investimento, porta con sè dei rischi. L’equazione “gioco a tennis = devo guadagnare” non ha alcun senso. Circa un mese fa, alcuni dei più forti hanno giocato l’IPTL e hanno raccolto stipendi pazzeschi, sull’ordine di milioni di dollari. Pare che Roger Federer abbia intascato 4 milioni per un impegno di un weekend. Nel frattempo, il tennista argentino Tomas Buchhass ha denunciato le precarie condizioni di gioco in un future in Cile. Aveva ragione, ma non per quanto riguarda i montepremi. Quelli erano noti e giocarli è stata una libera scelta. E’ di poche settimane fa la pubblicazione dello studio condotto dall’ITF per frugare nelle tasche dei giocatori. L’analisi ha riguardato 7.605 tennisti e ha scoperto che soltanto il 6% (tra le donne) e il 5% (tra gli uomini) hanno guadagnato la stessa cifra che hanno speso. Non è che 7.000 giocatori non sono un po’ troppi? Nella Serie A di calcio abbiamo circa 500 giocatori e, al netto delle cattive gestioni societarie, il calcio ha introiti straordinari, superiori a quelli del tennis. Tra sponsor e diritti televisivi, il tennis non può permettersi di aumentare i montepremi in modo significativo. E non dimentichiamo che buona parte degli eventi sono il frutto di iniziative singole, a volte individuali. La stessa ATP, quando ha aumentato il montepremi minimo dei challenger, non ha esteso l'obbligo ai tornei già esistenti. C’era il rischio che troppi tornei morissero.
SOGNI O UTOPIE?
Il tennis è molto costoso. Basti pensare alle tante storie di vera e propria….ingegneria gestionale come quella di Dustin Brown, che per anni ha girato l’Europa a bordo del suo camper. Il tedesco è uscito dall’anonimato, ma perchè è un ottimo tennista. Mica perchè ha avuto fortuna. Più che sui montepremi, ATP, ITF e WTA dovrebbero intervenire sulle condizioni di gioco, fornendo ospitalità e magari buoni pasto nei tornei più piccoli. Se non è giusto arricchirsi giocando i tornei futures, è altrettanto vero che non bisogna rimetterci. Sarebbe forse più corretto, come propose anni fa Gianluca Naso, abolire i montepremi ma garantire adeguate condizioni di vita. “Dobbiamo premiare i giocatori che vanno avanti, ma anche rendere le cose più complicate per chi non ce la fa” ha detto Kris Dent, responsabile del settore professionistico per conto dell’ITF. La frase può sembrare crudele e ingiusta, ma riflettiamo: è giusto che un trentenne mai entrato tra i top-500 continui a inseguire un sogno? Certo, ma non se si copre di debiti. Il sito americano Bleacher Report ha citato un caso affascinante, un paragone con il mondo del cinema. June Squibb (nella foto sopra) è un’attrice di 85 anni che per decenni ha vivacchiato tra soap operas, film indipendenti e produzioni di serie B. Poi, a 84 anni, ha avuto l’occasione d’oro ed è stata nominata migliore attrice non protagonista del film “Nebraska”. Ha avuto un picco di popolarità che l’ha resa famosa in tutto il mondo. Per anni ha giocato i “futures”, e alla fine ha sfondato. Ma non ha mai preteso che Robert De Niro o Richard Gere si tagliassero lo stipendio. Era consapevole dei rischi del mestiere. Anche i tennisti dovrebbero fare così, consapevoli che i loro guadagni dipendono solo ed esclusivamente dai risultati. A volte la proporzione è di una correttezza quasi crudele. Roger Federer ha guadagnato fino all’ultimo centesimo i suoi 88 milioni di premi ufficiali, così come Michael Berrer i suoi 2,3. Onestamente, qualcuno pensa che lo svizzero avrebbe dovuto guadagnare meno? O il tedesco guadagnare di più? Semplicemente, hanno raccolto quanto seminato. Sulle spese si può discutere, ma sui guadagni sarebbe opportuno riflettere prima di scandalizzarsi. E poi, a ben vedere, si può guadagnare qualcosa anche in altri modi (gare a squadre e attività di maestri su tutte).
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