Tutta la saggezza, l’umanità e l’esperienza del Genio nel discorso con cui ha accettato la laurea honoris causa al Darthmore college
Il discorso del Re. Il titolo sembra scritto. Stiamo infatti parlando di un discorso di King Roger. Parole, sì, ma non nella forma di una poesia con racchetta e pallina, né in quella di una conferenza stampa per addetti ai lavori. Ecco allora il discorso del dottor Roger Federer, in occasione della laurea honoris causa in Scienze Umanistiche ricevuta dall’Università americana di Dartmouth College. Emozionatissimo (fino alla “classica” commozione finale), fasciato con un certo impaccio dalla toga, il dottor Federer qualche giorno fa ha sfoggiato un’abile tecnica oratoria, donandoci una vera lezione di vita. Tra aneddoti, perle sparse qua e là, e alcune parole chiave – due su tutte, tempo e ritiro – ecco le tre lezioni essenziali con cui ha scandito l’orazione, come tante volte ha giocato partite di tre set.
Anzitutto “l’assenza di sforzo è un mito”. Il talento ci vuole, nel tennis come nella vita – chi meglio di lui può saperlo! –, ma senza disciplina e perseveranza-pazienza non si va da nessuna parte. Il Genio di Basilea non ha usato questo termine, ma potremmo parlare di “ascesi”, che significa letteralmente esercizio: ora dopo ora, giorno dopo giorno, sfida dopo sfida. Sì, perché “tutti possono giocare bene per le prime due ore”, ma il difficile (e il bello) arriva dopo, quando la fatica ci scoraggia e ci obnubila, quando la distrazione è in agguato. Dunque bisogna prepararsi, nel nascondimento ascetico, che le telecamere non potranno mai documentare. E qui una confessione che non sorprende chi conosce il tennis (sì, anche quello del Re), ma che poi si estende alla vita di ciascuno di noi: “Ho dovuto lavorare molto duro… per farlo sembrare facile”. Anche perché, “molto spesso non si tratta di dono (gift) ma di grinta (grit)”: Roger forse non lo sa, ma in queste pieghe si cela tutto il dibattito teologico tra grazia e opere, tra Agostino e Pelagio.
Dopo la salvifica perseveranza, è la volta della lezione centrale, bifronte: “è solo un punto”. Mentre lo si sta giocando è la cosa più importante del mondo, l’unica che abbiamo; ma un attimo dopo è già alle spalle. E poi bisogna concentrarsi sul prossimo, all’infinito. Si può ricominciare! Non saprei dirlo meglio che con la sapienza di un capolavoro della letteratura rabbinica: “Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”, facendo tesoro degli errori. Si comprendono allora due affermazioni del saggio Roger: “Dei 1526 match di singolare giocati in carriera, ne ho vinti quasi l’80%. Ma sapete quanti punti ho vinto in quei match? Solo il 54%”! Perciò “i migliori non sono quelli che vincono ogni punto, ma quelli che sanno che perderanno ancora e ancora, e hanno imparato come fare i conti con questa realtà”. Meditate, gente, meditate…
Infine, e non sembri banale ricordarlo: “La vita è molto più grande di un campo da gioco”, e di ogni lavoro. Non dimentichiamolo, mai: “Siamo qui ogni giorno l’uno per l’altro”. Il noi prima dell’io, nel viaggio dell’esistenza. Insieme, solo insieme, possiamo vincere lo Slam della vita. Dunque, “soprattutto, dobbiamo essere gentili l’uno con l’altro”. Perché l’amore basta all’amore, anche quando è (sembra) in perdita. Perché ogni punto è tutto ciò che abbiamo, qui e ora, gioendo e soffrendo insieme. Ma poi ne arriva un altro. Perché senza Rafa non c’è Roger, e viceversa. Perché senza tu, io non c’è. Grazie, dottor Roger!