L’INTERVISTA – Matteo Donati è forse il meno noto dei “Quattro Moschettieri” classe 1995 e 1996 che l’Italia aspetta con ansia. Eppure gioca un ottimo tennis e ha un buon ranking. Conosciamolo.
Matteo Donati in azione al challenger di Bergamo
(Foto Antonio Milesi)
Da Bergamo, Riccardo Bisti – 11 febbraio 2014
Nel 2013 ha scalato 605 posizioni nel ranking ATP, portandosi a ridosso dei top-400. Numeri alla mano, Matteo Donati non è così distante da Gianluigi Quinzi, che gli sta davanti ma non in misura enorme come suggerirebbero i titoli dei giornali. L'alessandrino fa parte di una nidiata di ragazzi molto attesi: oltre a lui e Quinzi ci sono Stefano Napolitano e Filippo Baldi. Forse Matteo è il meno conosciuto, e quando gli parli capisci perché. E’ un ragazzo di poche parole, gentile e riservato. E forse non è ancora abituato alle richieste di interviste, magari improvvise. Però sul campo piace, non solo per un tennis moderno che vorrebbe assomigliare a quello di Andy Murray. Ha un atteggiamento maturo, senza strilli né eccessi. Qualcosa che gli tornerà utile in futuro. I suoi 19 anni, tuttavia, emergono negli alti e bassi che a Bergamo gli sono costati una dolorosa sconfitta contro Konstantin Kravchuk. Il livello era simile, molto simile. Ma 10 anni di differenza si fanno notare. La speranza è che l’anno prossimo non perda un tie-break dopo averlo condotto per 6-1. Adesso la sua marcia ripartirà dal Kazakistan, dove parteciperà a un challenger e almeno un future.
Da dove arriva Matteo Donati?
Ho iniziato grazie a mio fratello, tre anni più grande di me. Lui giocava, io lo accompagnavo a volevo iniziare già da piccolissimo. Tuttavia, il maestro disse di aspettare almeno i cinque anni di età. A quel punto ho iniziato con le prime lezioni. Il tennis è sempre stato la mia passione, quando ero a casa giocavo contro il muro. Il mio primo club si chiamava “Gli Orti”, un circolo di Alessandria che oggi non esiste più, poi mi sono trasferito alla Canottieri Tanaro, dove sono rimasto fino ai 16 anni di età. Da un paio d’anni mi sono trasferito presso il Matchball Bra, sotto la guida di Massimo Puci.
Togliamoci subito il dente: cosa pensi del clamore attorno a Gianluigi Quinzi?
Il clamore c’è, innegabile. Sono contento per lui, i risultati ci sono, è reduce da una grande annata ed è un bravissimo ragazzo. Si merita tutto. Per me è un vantaggio che ci siano altri ragazzi di alto livello: non solo Gianluigi, ma anche Stefano Napolitano e Filippo Baldi. Siamo un gruppo. Ritengo che avere ragazzi più o meno della stessa età, che si vedono sempre ai tornei, sia un buon aiuto. Puoi allenarti insieme e dialogare, molto meglio che andare in giro da soli senza conoscere nessuno.
Il fatto che tutti i riflettori siano su Quinzi è stato un vantaggio per te? Hai potuto crescere più tranquillo?
Io non ho pressione: devo pensare al mio gioco insieme a Massimo e a tutte le persone che mi stanno vicino. Tutto quello che si dice fuori non deve influire. Dobbiamo fare la nostra strada e cercare di ottenere sempre il meglio.
Che tipo di giocatore sei? Dovendoti paragonare a un big, a chi pensi di assomigliare?
Sono un giocatore d’attacco, mi piace comandare il gioco con il servizio e il dritto. Amo muovere la palla e impostare il gioco con il dritto, magari andando avanti e chiudere il punto a rete. Un top-player? Mi ispira molto Andy Murray, forse mi avvicino un po’ a lui come stile.
Nel tennis è più importante la testa, la tecnica o il fisico?
La testa. Ormai sono tutti forti, giocano tutti bene, dal primo all’ultimo. La differenza tra i top-players e gli altri sta nelle scelte. Credo che una buona testa aiuti più di tutto il resto. Il fisico, ovviamente, conta sempre di più.
A fine anno che classifica dovresti avere per essere contento?
L’obiettivo che ci siamo posti è chiudere più o meno intorno alla 250esima posizione, ma non devo basarmi su quello. Devo fare il meglio e vedere cosa succede. L’importante è arrivare a fine anno con la certezza di avere dato tutto ed essere pronto per il successivo.
Il giapponese Taro Daniel ha detto che è sbagliato porsi obiettivi, perché può capitare che la testa vada troppo oltre. Sei d’accordo?
Assolutamente. Gli obiettivi si danno sulla carta, ma non sono indicativi. Ciò che conta è dare sempre il massimo, e magari andare anche oltre quello che ti eri prefissato. Dare sempre il meglio di sé, lottare al top: penso che sia una bella cosa arrivare a fine carriera con questa sensazione.
Chi sarà il numero 1 italiano a fine 2018?
Eh, questo non si può sapere! Magari sarà un giocatore che oggi non è tanto nominato. Poi in quattro anni possono cambiare tante cose…
Ti piace la vita da tennista? Quali sono le cose chi ti piacciono e quelle che ti infastidiscono?
Mi piace molto, è bello girare in mezzo agli sportivi. E’ un bell’ambiente, ci sto volentieri. Mi piace, sto bene e francamente non vedo aspetti negativi.
Com’è il tuo rapporto con la FIT?
Ottimo. Anche se non sono più junior c’è Mosè Navarra, responsabile degli Under 18, che ci segue sempre. Inoltre ho buoni rapporti con tutti i membri della federazione: ci aiutano, ci seguono…ci siamo visti di recente a Roma, poi ogni tanto andiamo ad allenarci a Tirrenia.
Quanto è difficile la vita di un tennista a questi livelli?
La FIT prova ad aiutarci e alleviare in qualche modo le spese a cui siamo sottoposti, specie all’inizio. In questi anni abbiamo speso tanti soldi, ma sono sacrifici doverosi per cercare di arrivare ad alti livelli. Non c’è scampo, bisogna passarci per forza. Speriamo che prima o poi le cose possano cambiare, sia per me che per la mia famiglia che mi aiuta moltissimo.
L’anno scorso hai cambiato il movimento del servizio, passando a quello in cui avvicini i piedi prima dell’impatto. Com’è andata? Hai avuto paura che le cose andassero male? Quanto è durata la transizione?
Appena arrivato da Massimo ne abbiamo parlato, ma l'ultima parola è stata la mia. Non servivo male, ma secondo lui c'erano margini di miglioramento. Sin dal primo momento gli ho detto sì, con convinzione, anche a costo di ‘perderci’ un mese di lavoro. L’ho affrontata molto tranquillamente. Ero sicuro della mia scelta, mi ha aiutato a non impiegarci molto tempo. Se non sei convinto di una scelta, magari ci impieghi di più. Io invece mi sono trovato bene sin da subito. Non è stato facile fare un cambiamento del genere intorno ai 17 anni, però è andata bene.
Domanda banale: che differenze hai trovato tra i junior e i professionisti?
Ormai il livello dei top-junior è altissimo. Non ha nulla da invidiare ai futures, forse nemmeno ai challenger. Pensa a Edmund, lo stesso Quinzi, Garin, Kyrgios, Kokkinakis: pur essendo junior o giù di lì, ottengono risultati. Quindi non cambia molto. Ovviamente, quando giochi con un professionista più esperto vedi come gestisce la partita e i punti importanti. C’è una continuità che tra i ragazzi non trovi. Magari i giovani hanno picchi di rendimento più alti, ma anche cadute rovinose. Bisogna lavorare duramente in questo senso per arrivare a un livello più alto.
Chiesto anche a Stefano Napolitano: si dice che i rischi più grandi per un giovane tennista siano la prima macchina e la prima fidanzata. Tu come la pensi?
Secondo me non sono cose importanti. Certo, arrivano tutte, hanno i loro tempi, ma non devono influire. Non penso che debbano occupare troppo la testa. Tutti ci passano e tutti le avranno…posso dire che a me non è cambiato nulla.
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