Poi, fra gli studi di teologia e l’ordinazione a sacerdote che risale al 1991, il tennis è sparito completamente dalla sua vita, lasciando spazio a pallavolo e calcio, prima di tornare a farsi vivo una quindicina d’anni fa. «Ero parroco in provincia di Varese e alcune persone del paese mi hanno spronato a riprendere a giocare insieme a loro. Dicevano che giochicchiavo benino, così mi hanno spinto a fare la tessera agonistica e a iniziare con i tornei».
Il sito Tennistalker, usato più in versione stalker che talker, racconta di un’attività piuttosto florida negli anni scorsi, che l’aveva portato alla classifica di 4.3. «I miei superiori – spiega – sono al corrente della mia passione e del fatto che gioco i tornei. Al di là della parte sportiva, il tennis mi ha dato la straordinaria opportunità di conoscere tantissime persone. Prima di un match mi presento sempre: piacere, Paolo, sono un prete. Tanti ne restano sorpresi, ma in quindici anni di tennis a livello agonistico sono anche nate delle vere amicizie e dei rapporti di stima reciproca. È capitato che alcune persone che si erano allontanate dal cammino di fede, conoscendomi e parlando dopo una partita di tennis, si siano riavvicinate. Come è successo che alcuni miei avversari, sapendo del mio servizio (non quello con la racchetta, ndr), mi abbiano proposto di berci una birra insieme per chiedermi qualche consiglio su alcune situazioni della loro vita». Una sorta di confessione 2.0, in versione tennis club. «Papa Francesco dice che bisogna avvicinarsi alle periferie, a quegli ambiti dove all’apparenza c’è indifferenza nei confronti della fede. Dico una cosa forte: credo che il buon Dio abbia usato il tennis anche come forma di evangelizzazione».
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Non potendo attualmente giocare, Don Paolo si consola con un po’ di tennis in televisione. Più Federer che Nadal («Roger a inizio carriera era un pazzo, ora è un signore») e meglio un bell’incontro femminile rispetto ai match sparatoria di Isner, Karlovic e compagnia, anche se pure il suo modello, Andy Roddick, non è che col servizio ci andasse piano: «Mi è sempre piaciuto perché credo che il mio tennis, con le dovute proporzioni, ricordi un po’ il suo. Non mi piace scambiare, arrivo al massimo a sette, otto colpi, poi provo a mettere in difficoltà l’avversario scendendo a rete o cercando la soluzione vincente». In campo A-Rod da Omaha era molto sportivo, anche se la memoria ricorda qualche sceneggiata, come il «mandate a scuola i vostri figli, altrimenti da grandi diventeranno arbitri» urlato al pubblico dell’Australian Open dopo un diverbio col giudice di sedia. Per non parlare delle racchette disintegrate.
E Don Paolo? «Quando faccio qualcosa voglio farla bene, quindi se in campo commetto un errore sciocco me la prendo. Mi arrabbio con me stesso e capita che ogni tanto la racchetta scivoli di mano. Ma non in maniera esagerata e sempre nel rispetto dell’avversario. Però non dico parolacce, quelle mai». Mica come qualche avversario che, pur sapendo che dall’altra parte della rete c’era un prete, ha dato comunque sfoggio del prontuario di bestemmie o ha chiamato con disinvoltura qualche out molto fantasioso: «Le parolacce mi danno fastidio, mentre per qualche palla dubbia non me la prendo. Si trova sempre qualcuno che prova a darsi una mano, è capitato tante volte. Pazienza. Si dice che l’importante sia partecipare, ma la trovo una frase limitante. Quando si gioca, tutti vogliono vincere. Certo, sarebbe importante provarci con onestà». Come detto, i problemi di salute hanno imposto altre priorità, ma il tennis resta sempre in primo piano. «Al momento non ho grandi prospettive, e non so se riuscirò a riprendere con l’intensità di prima, anche perché gli anni passano e l’età inizia a farsi sentire. Ma la speranza di tornare a giocare me la tengo ben stretta. Anche a costo di mettermi seduto al centro del campo e farmi tirare qualche palla». Se non è passione questa…
(Articolo pubblicato sul numero di novembre 2017 de Il Tennis Italiano)
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