Curiosità volendo, la vittoria di Novak Djokovic alle Atp Finals di Torino, fornisce al mondo del coaching una dritta non da poco. Riflessione a prima vista confusa con l'uovo di Colombo, salvo realizzare, appena dopo, che in realtà è il crocevia del "rendimento adattivo", meglio conosciuto come "salto di livello". Condizione spesso invocata in fase formativa ma anche in vista di avversari difficili da affrontare o nei momenti cruciali di un ostico match da dipanare.
Trattato troppo spesso come una passeggiata salutare, in realtà il prezioso "cambio di passo" attiene solo a campioni con le stimmate del fuoriclasse, mentre troppo spesso viene invocato ignorando se tale "scatto" sia nelle corde del soggetto interessato o se invece sia fuori dalla sua portata. Dunque, la finale di ieri insegna che prima di incitare un giocatore al "salto" in questione, è sempre auspicabile valutare se il destinatario stia girando a pieno regime o se invece abbia ancora margini di crescita e di manovra. Se nel primo caso alzare il livello sarebbe solo un accumulo di errori, nel secondo si tratterebbe di avvicinare il gioco alle righe, renderlo più potente e potersi permettere variazioni a rischio senza frustrare il rendimento. Una condizione quest'ultima che in ragione di fattori tecnici, fisici e soprattutto motivazionali, risente delle circostanze e quindi di una ricorrente episodicità.
Tornando a bomba, ieri Djokovic era salito di livello già prima di entrare in campo, perché si era legato al dito la sconfitta di qualche giorno prima e perché ormai è un soggetto in competizione con i suoi stessi record. Una miscela dirompente che ha generato il match che tutti sappiamo.