A Bercy Dimitrov ha perso solo in finale contro Djokovic, sciogliendosi in lacrime per la delusione. Ma ha dimostrato di avere ancora un gran tennis da mostrare

Novak Djokovic ha persino interrotto l’intervista di fine match per andare a consolarlo – dopo avergli spento in due set la speranza di vincere Parigi-Bercy. E il pubblico lo ha investito, seppellito, soffocato di applausi, fino a quando da sotto l’asciugamano premuto sul viso è uscito il sorriso di Grigor Dimitrov. Un piccolo sollievo misto alle lacrime, sole e acqua. L’espressione di un bambino a cui si è appena rotto un giocattolo, e a cui spiegano che lo si può riparare. Che non c’è nulla di definitivo. Che domani si potrà incollare di nuovo l’anima al futuro. Dai, Griga, non è detta l’ultima parola.

Non solleva una coppa da sei anni l’ex baby Federer, il campione delizia per gli occhi e tormento delle statistiche. E a Parigi ci aveva creduto. Perché stava giocando dannatamente bene. Solido, accurato, incantevole ma non sciupone. Prima Musetti – un buon Musetti – poi il numero 3 del mondo Medvedev, il folle Bublik, aceman Hurkacz, l’estro di Tsitsipas. Una settimana da top 10, se non top 5. Peccato, per lui, che Djokovic sia sempre Djokovic.

Nel 2023 contro il Djoker ci aveva perso anche in Australia, poi contro Medvedev a Rotterdam e la settimana scorsa a Vienna, con Bublik a Marsiglia e Kubler a Indian Wells (uno dei pochi passi falsi), con Sinner a Miami e Pechino, con Lehacka a Monte Carlo, con De Minaur a Barcellona. Con Alcaraz a Madrid e al Queen’s, con Jarry a Ginevra; con Zverev (la sua bestia nera) al Roland Garros, a Cincinnati, agli Us Open e a Chengdu, con Evans a Washington, Rune a Wimbledon, Rublev a Shanghai. Quattro semifinali, una finale. Pochi inciampi, almeno rispetto al passato. Ma non ancora una coppa.

Griga il playboy, l’ex fidanzato di Maria Sharapova e Nicole Scherzinger, il quasi modello mai spocchioso, sempre alla mano, che scomoda i post di Venus Williams e conquista pure gli avversari («Se fossi una donna – ha scritto Rublev – mi innamorerei di Dimitrov. Ma forse lo sono un po’ anche se sono un uomo»). Dimitrov l’incompiuto, che a 32 anni aveva deciso di riprovarci seriamente. Per la gioia di tutti: perché il suo tennis è spettacolo vero, è tennis vecchio stile adattato ai tempi moderni.

«Non voglio sentirmi dispiaciuto per gli anni passati», aveva detto alla vigilia della finale di Bercy. «Non voglio pensare di aver perso delle opportunità. Ho perso delle occasioni? Sì, certo, troppe, secondo me. Ho commesso degli errori? Sì, troppi. Ora però ho un’altra occasione. E cerco di sfruttarla». Di tornei in carriera ne ha vinti appena otto, tutti stretti in cinque anni, e l’«appena» va misurato sul suo talento, sulle sue doti che da junior avevano fatto gridare molti al miracolo, al fuoriclasse, al golden boy venuto dalla provincia dell’impero ma capace di regalarci un supplemento di gioia sulla scia di un’epoca d’oro.

Il primo successo a Stoccolma nel 2013, l’ultimo urrah alle Atp Finals, in finale su Goffin, in quel 2017 in cui ha toccato il numero 3 Atp. Sembrava un nuovo inizio, dopo la scintillante semifinale a Wimbledon del 2014. E’ stata l’anticamera di un limbo.

Nel 2019 sono arrivate le semifinali agli Us Open (nello Slam solo al Roland Garros le ha finora mancate) ma anche l’infortunio alla spalla; poi uno sciabordio di risultati non malvagi, ma mai all’altezza delle sue possibilità. Ora è rientrato fra i primi 15, e a Parigi, in un grande palcoscenico, ha dimostrato di avere ancora qualche magia da spendere. Avesse vinto, avrebbe avuto una chance di entrare come riserva alle Atp Finals, e poi chissà. Dai, Grigor, asciugati le lacrime. E provaci ancora.