“Simona! Simona! Simona!”. Non era un coro normale, un semplice incitamento. Era quasi un esplosione di rabbia, la voglia di urlare al mondo – tramite il tennis – che esiste anche la Romania. Il campo Philippe Chatrier era pieno di bandiere blu, gialle e rosse, i colori di un paese che ancora oggi sta cercando una dimensione, un'identità, a quasi 30 anni dai fatti del dicembre 1989, la cruenta destituzione di Nicolae Ceaucescu. Da allora la Romania è cambiata, ma non come pensava gran parte della popolazione quando l'ex dittatore e la moglie venivano fucilati dopo un processo militare e una camera di consiglio che, in meno di un'ora, stabilì la condanna a morte. Simona Halep non era neanche nata, essendo venuta al mondo nel 1991, ma il suo successo al Roland Garros rappresenta un'occasione di gioia e riscatto. Un desiderio di uscire dall'anonimato che ha trovato espressione sonora in quei “Simona! Simona! Simona!” che i tanti rumeni hanno ruggito durante il 3-6 6-4 6-1 che ha lavato via le paure e asciugato le lacrime di un anno fa, quando la Halep si arrese a Jelena Ostapenko in condizioni analoghe. Avanti di un set e di un break, nonché 3-0 nel terzo set, la rumena si incartò sul più bello e perse la sua seconda finale Slam. Ne sarebbe arrivata un'altra lo scorso gennaio, a Melbourne. “Ma sono contenta che il mio primo Slam sia arrivato proprio a Parigi” ha detto la Halep dopo aver commosso un po' tutti. Quando un servizio vincente le ha dato l'ultimo punto, ha lasciato cadere per terra la sua racchetta, poi si è voltata verso il suo angolo, guidato da coach Darren Cahill, senza però lasciarsi andare a scene di gioia isterica. Simona è fatta così: in pubblico non le piace mostrare troppe emozioni. Sembra fredda, tranquilla, ma in realtà vive una profonda complessità interiore.
INIZIO DA INCUBO, POI LA RIVOLUZIONE
“L'anno scorso ho pianto per tutta la notte dopo aver perso contro la Ostapenko. Quando mi sono trovata in svantaggio di un set e di un break, ho detto che stavolta avrei dovuto vincere io”. Missione compiuta. Dopo un inizio da incubo, in cui si era trovata in svantaggio 6-3 2-0, ha chiuso con un parziale di 12 game a 3 che ha punito una Stephens incapace di uscire dal suo piano tattico iniziale. La strategia dell'americana aveva funzionato a meraviglia – appunto – fino al 6-3 2-0, quando aveva fatto provare alla Halep la fastidiosa sensazione di giocare contro se stessa. Abile nel difendere, nel giocare di contrattacco, Simona si era trovata di fronte un muro di gomma e che rimandava tutto e aveva la palla più pesante della sua, peraltro evitando con accuratezza il rovescio dell'avversaria. Quando la Stephens strappava il servizio in avvio di secondo, con un bel recupero che costringeva la Halep ha giocare un goffo smash, sembrava tutto finito. L'ennesimo dramma sportivo. “Forse Sloane ha avvertito un po' di stanchezza” ha detto Mats Wilander dopo la finale: forse è vero, ma da lì in poi la Halep ha trovato quel pizzico di aggressività in più che ha mandato in confusione la Stephens. Con quattro game di fila bloccava l'emorragia, si faceva riprendere sul 4-4 (complice anche qualche folata di vento), ma ormai il gioco della Stephens era decifrato. Il braccio dell'americana non aveva più energie, la sua palla non era più pesante come nel primo set. La pesantezza, semmai, si è trasferita sulle gambe. Il terzo set è stato un monologo della Halep, in un tripudio di colori rumeni, come se si giocasse a Bucarest, o magari a Costanza. Sul 3-0, tutti hanno pensato al capitombolo dell'anno scorso. Ci ha pensato anche la Stephens, che ha avuto la palla per muovere il punteggio e magari materializzare qualche fantasma. La Halep non si è deconcentrata e ha raccolto un game importantissimo sul piano mentale.
40 ANNI DOPO VIRGINIA RUZICI
A quel punto, la resa dell'americana è stata evidente. Fino ai festeggiamenti, sobri, in perfetto stile Halep. Dopo il matchpoint è andata ad abbracciare il suo clan: Cahill, i genitori (mamma Tania e papà Stere), tutti. Scene commoventi che però non si sono tramutati in lacrime. L'unico momento in cui gli occhi le si sono inumiditi è stato durante la premiazione, quando gli altoparlanti hanno suonato l'inno rumeno, con il suo sound solenne che rispecchia una storia travagliata. Composto addirittura nel 1848, "Desteapta te, Romane!" ("risvegliati, romeno!") È diventato inno nazionale soltanto nel 1990 dopo la caduta di Ceaucescu. C'era ancora il vecchio dittatore, nel 1978, quando Virginia Ruzici colse uno storico successo che oggi va definitivamente in archivio. Quest'anno, il quarantennale ha significato tanto per il Roland Garros: non solo il successo della Halep, ma anche la semifinale di Marco Cecchinato nel torneo maschile, dopo che Corrado Barazzutti aveva fatto altrettanto nel 1978. Con questo successo, Simona Halep resterà al numero 1 del mondo e la sua carriera potrebbe vivere una svolta. Vincere uno Slam è come entrare in un club, il più ristretto, una specie di iniziazione. Stappato il tappo delle frustrazioni, adesso il suo tennis potrà sgorgare senza più fantasmi né pensieri. È il giusto premio per una giocatrice che si è costruita piano piano, senza contare sulla potenza che ormai ha preso piede anche nel tennis femminile. Certe sconfitte avevano fatto pensare a una maledizione, a un sogno che non si sarebbe mai realizzato. Il coraggio di continuare a crederci, di lavorare sempre di più, è stato premiato in un assolato pomeriggio parigino. Accompagnato da quel “Simona! Simona! Simona!” che difficilmente dimenticherà.
ROLAND GARROS DONNE – Finale
Simona Halep (ROM) b. Sloane Stephens (USA) 3-6 6-4 6-1