Lo sport ha le sue regole, ma è inevitabilmente calato nel mondo e nelle sue mille problematiche. Ci sono campioni che capiscono quando è il momento di alzarsi e parlare non solo di tecnica o di tattica

Qualcuno ha detto che il coraggio è fare qualcosa che si ha paura di fare. Dunque, senza paura non c’è coraggio. Anche nello sport. Sono coraggiosi i calciatori iraniani che ai mondiali in Qatar non cantano l’inno nazionale prima del match con l’Inghilterra per solidarietà con chi in patria protesta contro l’oppressivo e violento regime teocratico. Hanno coraggio da vendere le Farfalle della ginnastica ritmica che rivelano ai giornali le angherie subite per mano dei loro allenatori. Per venire al tennis, ebbe coraggio mediatico nel 1973 la grandissima Billie Jean King, allora trentenne, quando l’ex numero 1 del mondo Bobby Riggs, classe 1918, la sfidò dicendo che «qualsiasi uomo a qualsiasi età può battere una donna con una racchetta in mano». Lei accettò. E lo sconfisse davanti a novanta milioni di telespettatori. Ne ha avuto ancora di più la cinese Peng Shuai, 36 anni, già WTA 14, che l’anno scorso ha rivelato sui social di aver subito le attenzioni sessuali di Zhang Gaoli, ex vicepremier cinese. Da allora è di fatto tenuta segregata dal regime autocratico di Xi Jinping nonostante gli appelli di associazioni e personaggi pubblici.

Lucky Losers ha in parte raccontato del coraggio di Daria «Dasha» Kasatkina sul numero di agosto del 2020. La russa classe 1997 era allora nel bel mezzo di un periodo problematico. Numero 10 Wta a fine 2018 dopo due stagioni sfolgoranti, era lentamente scivolata giù giù fino a quota 70 del ranking, non trovava nuove motivazioni, era prostrata dall’isolamento dovuto alla pandemia, passava le giornate postando su TikTok, meditava di smetterla con il tennis. Aveva chiesto aiuto al fratello Sanya, suo alter ego, che le aveva trovato una psicologa. Sembrava che la principale causa della crisi di Dasha fosse il timore di un tracollo economico poiché da adolescente la sua famiglia aveva penato parecchio per assicurarle l’opportunità di diventare una top player. C’era dell’altro. Qualcosa venne allo scoperto nell’estate del 2021 quando Dasha già aveva recuperato una trentina di posizioni nella classifica mondiale. Parlando con la giornalista Sofya Tartakova di Match TV disse, senza alcuna enfasi, che non avrebbe avuto esitazioni ad avere una relazione sentimentale con una donna. Non fu un outing, ma solo un’anticipazione di quanto è accaduto nel luglio scorso dopo la sua prima semifinale di slam al Roland Garros (in agosto sarebbero arrivate delle vittorie nel Wta 500 di San Jose, in California, e nel 250 di Granby, in Canada). Al culmine di una stagione fantastica che l’ha vista tornare tra le dieci migliori al mondo (ha finito l’anno da numero 8) e da front runner della folta pattuglia di russe nelle top 100, il 19 luglio allo youtuber Vitja Kravchenko che le ha chiesto se abbia una fidanzata, ha risposto di sì, rivelandone anche il nome: Natalia Zabijako, pattinatrice artistica russo-estone che adesso gareggia per il Canada. Poi ha criticato esplicitamente la politica di discriminazione del regime del suo paese nei confronti di gay, lesbiche, transessuali e bisessuali. Ancora più dura la posizione contro l’aggressione all’Ucraina: «Voglio potermi allenare e giocare con tenniste che non devono preoccuparsi di poter essere bombardate (dai russi ndr)». Decisa a non nascondere più nulla di quanto pensa, ha dichiarato la propria simpatia per i colleghi ucraini obbligati a lasciare le proprie città e a trovare accoglienza nei circoli di altri paesi. Alla domanda di Kravchenko «…non hai paura che non potrai più tornare in Russia?» ha risposto solo «Ci ho pensato!» ed è scoppiata in lacrime.

È coraggioso un altro russo, Andrey Rublev, che il 14 novembre a Torino, dopo aver battuto per 6-7 6-3 7-6 il connazionale Daniil Medvedev, ha scritto sull’obiettivo della telecamera: «Peace peace peace all we need». Rispondendo un’ora più tardi alla domanda di Stefano Semeraro sulle motivazioni di quelle sei parole che già avevano fatto il giro del mondo ha risposto: «Ho fatto quello che sentivo di fare. M’è venuto naturale, tutto qui. Penso sia importante, specialmente nel nostro tempo, avere la pace. Abbiamo Internet. Abbiamo la vita facile. Possiamo volare, viaggiare, fare sport, prenderci cura della nostra famiglia. Nessuno vuole soffrire o guerreggiare. Penso che fosse così molti anni fa. Oggi penso che non ne abbiamo bisogno. Molti paesi stanno soffrendo, e basta. È importante stare insieme e avere pace». Anche Medvedev s’era espresso senza timori di ritorsioni in febbraio subito dopo l’invasione dell’Ucraina, mentre era in Messico per l’Atp 500 di Acapulco: «Da giocatore di tennis, voglio promuovere la pace in tutto il mondo. Giochiamo ovunque, sono stato in tanti paesi da junior e da professionista. Non è facile sentire tutte queste notizie (di guerra e di sofferenze ndr)».

Forse vi state chiedendo: cosa c’entrano questi racconti di coraggiosi con le storie umane e sportive di Lucky Losers? C’entrano eccome. Perché i tennisti, come gli atleti di altre discipline, possono essere lucky, o unlucky, fortunati o sfortunati, losers o winners, perdenti o vincenti, ma più sono conusciuti, più hanno responsabilità verso gli altri, che non sono soltanto i loro tifosi. Lo spiegò meglio di tutti un altro uomo coraggioso, Vijay Amritraj, classe 1953, tra il 1974 e il 1981 quattro volte semifinalista da singolarista a Wimbledon e agli Us Open, prima a Forest Hills e poi a Flushing Meadows, semifinalista in coppia con il fratello Anand nel torneo di doppio ai Championships del 1976: in occasione della finale di Coppa Davis 1974 contro il Sudafrica, condivise del suo governo la decisione di non giocare in segno di protesta per le politiche di apartheid praticate dal governo di Pretoria. Anni dopo dichiarò: «Qualcuno dice che lo sport debba stare fuori dalla politica. In certi casi è praticamente impossibile. Ci sono questioni che dobbiamo appoggiare o alle quali ci dobbiamo opporre, perché siamo esseri umani prima che atleti o atlete. Ogni persona, che sia un artista, un diplomatico, un professionista, un atleta, ha una certa responsabilità verso i suoi simili e, spero, una coscienza. Tutti dobbiamo contribuire a costruire un mondo migliore, di uguaglianza, di dignità, di libertà».