La curiosa parabola di Jared Donaldson, autore dell'impresa di giornata: battuto il n.12 David Goffin. Per migliorare fisicamente si è fatto due anni e mezzo in Argentina, dove si è forgiato sulla terra battuta, poi è tornato negli States e si è affidato alle cure di Taylor Dent. “Ha cambiato la mia tecnica, soprattutto il servizio”. E così gli States hanno un altro (bel) giocatorino.

“Faceva caldo”. L'ha voluto sottolineare subito, rispondendo alla prima domanda. Nonostante la vita lo abbia portato in luoghi piuttosto caldi, Jared Donaldson resta pur sempre un ragazzo del Rhode Island, nord-est americano, dove gli spazzaneve sono più frequenti dei campi da tennis. E allora il caldo resterà per sempre un nemico, anche nel giorno in cui diventa il protagonista allo Us Open. E' lui a far gioire gli americani grazie al successo su David Goffin, numero 12 del tabellone. Per l'amor di Dio, il belga gli ha dato una grossa mano commettendo 17 doppi falli, però questo successo (4-6 7-5 6-4 6-0 lo score) è figlio della buona estate dell'americano. Secondo turno a Washington, terzo a Toronto, secondo a Cincinnati, qualificazione a Los Cabos. Insomma, ci siamo. E Jared c'è, forte di una storia molto diversa da quella dei connazionali. Niente USTA, niente accademie locali, ma una scelta molto curiosa. Uno dei suoi primi maestri nel Rhode Island, Nestor Bernabe, veniva dall'Argentina. I campi in terra verde, l'Har-Tru americano, lasciavano a desiderare, così lui giocava soprattutto indoor e sviluppava un tennis pieno di lacune. Bernabe lo ha preso da parte e gli ha detto: “Ehi Jared, perché non fai un salto in Argentina? Lì conosco varie accademie". Per lui, che aveva iniziato a giocare a tennis per sincero amore verso il nostro sport, è stata una scelta difficile ma giusta. “Nell'accademia di Pablo Bianchi sono rimasto per due anni è mezzo: è stata dura, però la crescita c'è stata”. Jared è convinto che la terra rossa sia stata fondamentale nella sua crescita, sia tecnica che mentale. Ha imparato a costruirsi il punto, a risolvere problemi che in Rhode Island non aveva mai conosciuto.

AMBIZIONI IMPORTANTI
“Io sono alto e smilzo, avevo bisogno di lavorare sui movimenti. E sulla terra battuta devi correre parecchio. Il corpo è le gambe sono sollecitate molto di più rispetto alle altre superfici. Adesso la terra non mi è più estranea”. Storia interessante, ma a Flushing Meadows si gioca sul cemento. Tre anni fa è tornato negli Stati Uniti, ha preso casa a Irvine, California, e si allena con Taylor Dent. Proprio lui, uno degli ultimi panda del serve and volley, che si era rovinato il fisico con i suoi movimenti strani, soprattutto con il servizio. “Grazie a Taylor ho decisamente migliorato il servizio. E' diventato un colpo-chiave del mio tennis. Ormai è diventato un colpo importante per tutti”. Contro Goffin ha tirato 12 ace, spesso nei momenti giusti. Da giocatore, Dent cercava la rete appena poteva, mentre da coach è un tipo paziente. Scommettere su Donaldson, in mezzo al fiorire di tanti baby-talenti, non era scelta facile. “La nostra visione d'insieme è simile – spiega Donaldson – però spesso arriviamo in modi diversi alle stesse conclusioni. Lui ha fatto un gran lavoro, io sono stato bravo a dargli ascolto”. Dent è fiero del suo allievo, soprattutto del suo atteggiamento. E' disposto a stare in campo 6-7 ore al giorno, a fare cose che non gli piacciono. Il tutto con l'obiettivo di migliorare. “Soltanto migliorando il mio gioco arriveranno i risultati”. Forte del suo lavoro a fari spenti, forgiato in Argentina e rifinito in California, è pronto a entrare tra i top-100 a meno di vent'anni. “Ma io voglio diventare uno dei primi dieci, uno dei primi quattro, magari il più bravo di tutti” ha detto in tempi non sospetti, senza nascondere la sua ambizione. La misureremo al secondo turno, quando sfiderà Viktor Troicki, uscito da una dura battaglia contro Radu Albot.