Sul numero in edicola di Tennis Italiano si racconta Fabio Fognini sotto diversi punti di vista, dopo il successo di Monte Carlo e con la speranza di un nuovo exploit al Foro Italico. «A questo serve il talento, a farci pensare che possa ancora accadere. Qualcosa, o tutto. Rompere una racchetta, vincere al Foro Italico»Così è successo. Dopo tanto tempo, come se l’attesa fosse anch’essa una partita, un torneo per setacciare chi in Fognini ha sempre visto quel talento segreto, puro, capace di combattere contro il tempo che si porta via tutto: illusioni, vittorie, sconfitte. E in questa fiumana in attesa, ecco resistere i più irriducibili. «A questo serve il talento, a farci pensare che possa ancora accadere. Qualcosa, o tutto. Rompere una racchetta, vincere al Foro Italico»: lo scrivemmo esattamente due anni fa, nel mese di maggio, mese di terra battuta, mese in cui si aspettava Fognini, sempre, ogni anno, indefessi come pellegrini in viaggio verso una città fantasma.
In fondo, cos’altro è Monte Carlo se non una città immaginata, troppo pianificata per essere davvero vera, troppo furba per essere sincera. È un circuito, un casinò, un inventariato di ricchezza e riccanza, una fuga dal fisco, un campo da tennis fra il mare e il cielo. Adesso, è un posto dove è successo qualcosa. Fognini ha compiuto la sua storia. Ci ha tolto l’attesa per dare a tutti – a chi (per affetto) scarnificava di rimpianti una carriera già alimentata di successi e vittorie prestigiose e a chi (detrattori, talvolta aiutati nel compito ostile dallo stesso tennista) valutavano con cinismo ogni sconfitta – ma si diceva: a tutti ha dato un senso del giusto, delle proporzioni, della logica. Abbiamo dovuto spaventarci, noi appassionati e anche tifosi. E lui più di tutti. Ha avuto bisogno di impaurirsi, di temere di sentirsi respinto dal suo sport, dall’avanzare dei giovanotti (le sconfitte con Munar e Auger-Aliassime), e sentire il corpo rifiutare la fatica, i tendini bruciare, la caviglia dolere. Il tempo passare, la bella famiglia crescere, come un rifugio o come un più concreto senso del dovere, a seconda dei diritti o dei rovesci. E perdere così, per non averlo saputo trattenere con le vittorie, quel gesto così talentuoso che rende naturale l’esercizio difficile, e che manovra la palla e con essa gli avversari, per trovare poi conclusioni raffinate, alternando senza inciampo la potenza o il tocco, la sberla o la carezza. Scoprire, camminando sul baratro contro Rublev, il ragazzino che tira tutto forte, tutto a caso, tutto uguale, come se fosse un lavoro a cottimo invece che una ricerca di soluzioni, scoprire insomma a un solo punto dalla fine (sotto 4-6 e una manciata di occasioni per l’1-5) quanto invece sia esauribile la bellezza di questo sport e di questo mondo. Se il talento è un vampiro che succhia altre energie, la nostalgia è un sentimento che restituisce importanza a quello che resta.
Non era ancora finita, allora, ma serviva vedere la bellezza sparire verso l’orizzonte per poter fare un passo nella direzione giusta, e poi ancora un altro, contro Zverev, il superbo giovanotto nato campione; e ormai era una corsa libera, fino a riscoprire i limiti del più grande di tutti e di sempre su quel campo di terra macinata e pressata. Quel dritto spagnolo simile a una tromba d’aria, capace di soggiogare chiunque da tre lustri, e quel rovescio di Fabio, che riportava ordine allo scambio, e restituiva velocità alla palla, purezza al gioco. Nadal poi ammetterà di essere stato piccolo come mai in una lunga carriera: ma così insulso era stato ridotto dal gioco del nostro.
Eccola, la settimana attesa e mai stata, tanto da diventare un’utopia: struggente per i tifosi e irrisoria per gli accaniti e maldisposti. Quando chiesero allo scrittore uruguaiano come si potesse descrivere l’utopia, lui si servì dell’orizzonte: «Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino dieci passi e l’orizzonte si allontana di dieci passi. Per tanto che io cammini, non la raggiungerò mai». A questo serve l’utopia: a camminare.
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