Il Tennis Italiano ha contattato Il professor Maurizio Marvisi, pneumologo a Cremona, per sapere quali sono i pericoli di contagio da Covid-19 nel tennis e come agisce il virus negli atleti infetti. Il caso del giovane cestista in terapia intensiva e la bufala del virus che resisterebbe nove giorni sulle scarpe

«Nel tennis si corrono pochi rischi di contagio»

L’attività sportiva in tutta la penisola è ferma ormai dai Dpcm dell’8 e del 9 marzo, sospese le competizioni e chiusi i centri sportivi. Gli unici a fare eccezione sono gli atleti di interesse nazionali ai quali è concesso allenarsi. Durante la diffusione del COVID-19 lo sport è stato al centro dell’attenzione e sono stati i valutati i rischi sia della pratica a livello amatoriale che professionistico, con conseguente presenza di staff, addetti ai lavori e pubblico. Il Tennis Italiano ha parlato di questo e non solo con il professor Marvisi Maurizio, pneumologo e responsabile dipartimento medico e reparto di medicina dell’Istituto Figlie di San Camillo a Cremona. «Naturalmente gli sport con contatto fisico per forza di cose sono quelli a rischio più elevato, basta un colpo di tosse per diffondere e trasmettere il virus e lo stesso pericolo può esserci anche nell’ambiente chiuso delle palestre – inizia il discorso – Il tennis tutto sommato è lo sport dove si corrono meno rischi perché i contatti fisici sono azzerati, la distanza è ottimale e il rischio che il virus si attacchi alla pallina è stocastico. Resta importante evitare i contatti con il compagno di gioco nelle fasi che precedono e seguono l’allenamento».

Il Prof. Marvisi tranquillizza dunque sulla possibilità di contagio tramite la pallina e dà poi un’altra indicazione: «Per abbattere ulteriormente i rischi consiglierei a chi può giocare l’utilizzo della soluzione idroalcolica ai cambi campo – consiglia e poi aggiunge – Quando si apriranno le maglie delle direttive ministeriali il tennis potrebbe essere il primo sport a ripartire, nel caso dei professionisti naturalmente si dovrebbe giocare ancora a porte chiuse». In ottica di una possibile ripresa c’è un altro accorgimento che sarebbe bene prendere inizialmente e del quale si era comunque discusso nelle settimane prima dell’interruzione ed è legato all’utilizzo dell’asciugamano: «L’asciugamano deve essere assolutamente personale e non conviene farlo portare ai ragazzi. Dopo il match inoltre devono essere lavati e sterilizzati perché un asintomatico che non sospetta nulla potrebbe essere portatore sano e non possiamo dare nulla per scontato». Parlando nello specifico del sudore, il professore spiega l’impossibilità attuale di sapere se questo possa essere un mezzo di trasmissione: «Non abbiamo dati che ci facciano pensare che il virus possa essere eliminato con il sudore, il nuovo coronavirus non è diverso dagli altri che conosciamo e quindi in teoria il sudore in sé non è un pericolo. Per quel che sappiamo il virus si può espellere dalle vie respiratorie, dalle feci e per quanto visto durante queste settimane dall’urina».

«La genetica incide e gli atleti non sono esenti»

Continuando la conversazione con il professor Marvisi abbiamo chiesto quali possano essere le differenze tra l’attività indoor e outdoor: «Giocare fuori è sicuramente meglio perché con più ventilazione il virus si sparge nell’aria. Nel tennis però solitamente i palloni sono ampi quindi se la struttura dispone di un ricambio dell’aria idoneo la differenza diventa minima. Un’altra cosa che poi vorrei precisare dato che se ne è parlato molto, riguarda la durata della carica virale sulle superfici. Non è vero che il virus possa attaccarsi sugli oggetti o sotto la suola delle scarpe per nove giorni, questo virus ha bisogno di una cellula vivente, quando si perde nell’ambiente viene annientato in poche ore rendendo basse le possibilità di contaminazione tramite superfici».

Molti degli atleti colpiti finora sono risultati asintomatici, ha fatto eccezione però il caso di Matteo Malaventura, cestista di 41 anni con un lungo passato in Serie A1 risultato positivo al virus e adesso attaccato all’ossigeno. «Essere in buona salute e fare attività fisica aumenta l’efficacia del nostro sistema immunitario, ma non ci esenta dal pericolodice il professore che poi spiega qual è il fattore che incide maggiormente nei casi dei giovani in terapia intensiva – Nel caso dei soggetti di giovane età che abbiamo intubato, abbiamo notato un pattern genetico che li porta ad avere una risposta infiammatoria esagerata. Questo non è legato all’età o all’essere atleta, ma è influenzato dalla condizione genetica che porta ad essere più o meno predisposti all’insufficienza respiratoria». Continuando il discorso vengono poi spiegati i metodi di cura attuali: «Quando il paziente presenta un alveolite polmonare acuta dobbiamo intubarlo e metterlo in terapia intensiva, poi aspettiamo che l’infiammazione passi con i farmaci o spontaneamente. Usiamo il cortisone in elevati dosaggi o antibiotici, poi come molti avranno letto stiamo provando il Tocilizumab, il farmaco per l’artrite reumatoide che blocca l’interleuchina 6, una delle citochine che scatenano la risposta infiammatoria».