Vogliono portarci via la Coppa Davis. Il tennis è diventato – giustamente, per carità – un enorme business. Montepremi sempre più gonfi (ma sempre per i soliti noti), regole improntate a un presunto spettacolo richiesto dalla modernità. In tutto questo, era rimasto un baluardo: la Coppa Davis, unica manifestazione senza un montepremi ufficiale. Unica manifestazione in cui la partecipazione è dettata da ragioni intime, altissime. L'unica in cui si può giocare cinque set al giorno, per tre giorni consecutivi. L'unica in cui non giochi solo per te stesso, ma lo fai per un Paese intero. Saranno frasi fatte, ma la storia è piena di episodi che le confermano. A una settimana dalla votazione di Orlando, dove le varie associazioni nazionali dovranno decidere se accettare l'incredibile proposta ITF-Kosmos, che vuole ridurre l'Insalatiera a una robotica esibizione di fine anno, vi racconteremo alcune storie (famose, ma non solo) che hanno edificato la leggenda della Vecchia Coppona. Non hanno capito, certi uomini d'affari, che in Davis ci vuole ben altro che una buona condizione psico-fisica, un buon dritto, un buon servizio. In Davis bisogna essere temprati, nel cuore e nel cervello, disposti a buttare a mare qualche settimana di tornei in nome di un ideale e di una gloria eterna che nessun titolo ATP potrà mai offrire. Soltanto in Davis c'è la sensazione che ogni punto sia importante, soltanto in Davis provi ad andare su tutte le palle, anche le più improbabili, anche quando c'è da mettere in gioco la salute. Ecco alcune cartoline che negli anni ci ha spedito la zuppiera, e che perderemo per sempre se i delegati, giovedì prossimo, cederanno alla montagna di denaro offerta da Kosmos. Se la riforma passerà, un ente privato, fondato da un calciatore, potrà fare più o meno quello che vorrà di una delle manifestazioni più belle e antiche dello sport. Al giorno d'oggi, purtroppo, la memoria è un valore che si è perso. In questi giorni proveremo a recuperarlo.
Aveva iniziato a giocare in Davis nel 1993, quando aveva appena 17 anni. Nel 2009 era ormai un rottame, un giocatore finito. Non ci fosse stata la Coppa Davis e l'orgoglio di giocare per il suo Ecuador, Nicolas Lapentti sarebbe già stato un ex tennista. Ma con una novantina di partite sulle gambe, non poteva mancare alla grande occasione di riportare gli Incas nel Gruppo Mondiale. 18-20 settembre 2009, spareggio in trasferta contro il Brasile. I padroni di casa schierano Marcos Daniel, un bel tipo che ha vinto quasi tutti i suoi tornei nell'altitudine di Bogotà. In quei giorni festeggiava il suo best ranking (n.56 ATP). C'era Thomaz Bellucci, giovane rampante e in ascesa. E poi, nel rispetto della tradizione brasiliana, due grandi doppisti: Marcelo Melo e Andre Sa. Da parte sua, il capitano Raul Viver poteva contare solo su Lapentti, sceso al n.144 ATP e con un ginocchio sinistro a pezzi. Erano lontani i tempi in cui saliva al numero 6 ATP e raggiungeva la semifinale in Australia. “Se perdiamo questa partita, mi ritiro” disse alla vigilia. Al Gigantinho di Porto Alegre, a due passi da casa di Daniel, il n.1 brasiliano dava l'1-0 ai suoi con una facile vittoria su Giovanni Lapentti, il fratellino (scarso) di Nicolas. Nessuno pensava che sarebbero iniziate le 11 ore e 39 minuti più incredibili nella carriera dell'ecuadoriano. Giocando di pura esperienza, raccoglieva l'1-1 battendo Bellucci. Al sabato, guidava il fratello a un clamoroso successo in cinque set contro Melo e Sa. A quel punto, per riportare l'Ecuador tra le grandi, avrebbe dovuto superare Marcos Daniel. Sulla scheda del brasiliano sul sito ATP c'era scritto che il suo idolo era “Gesù Cristo”. C'è da credere che Daniel si sia rivolto molto in alto per vincere quella partita. Trovando chissà dove le forze, Lapentti vinceva i primi due set e poi finiva la benzina. 6-1 Daniel il terzo, 6-2 Daniel il quarto. Al cambio di campo ha visto gli spettri della sconfitta e di un ritiro imminente. Ma poi si è ricordato che stava giocando per il suo “Lindo” Ecuador, come recita una famosissima canzone riciclata in mille occasioni, eventi sportivi compresi.
UNA BANDIERA CHE LUCCICA
Si è portato 5-3, ha sciupato tre matchpoint, si è fatto riprendere, ma sul 6-6 a trovato l'energia per dare l'ultima spallata. Nell'ultimo punto, scavalcava Daniel con un pallonetto in slice, si presentava a rete ma non aveva bisogno di giocare la volèe perché il recupero del brasiliano volava via. Non aveva neanche la forza di esultare più di tanto. Nessun problema: ci hanno pensato i suoi connazionali, dal capitano Raul Viver ai compagni Giovanni Lapentti, Carlos Avellan e Julio Cesar Campozano. Senza dimenticare la leggenda di un paese, il suo cugino Andres Gomez, che era in panchina a fare il tifo, nel palestrone di Porto Alegre, nel centro sportivo dove si allena e gioca la squadra di calcio. “È un'emozione molto grande – disse nell'intervista sul campo, trattenendo una commozione sincera – dopo aver perso il terzo e il quarto set ero molto stanco, ma questo è il bello della Davis. Arrivano energie impreviste dalla squadra e dal Paese. Perso il quarto, mi sono detto che non avrei voluto perdere. Ho avuto tre matchpoint, in uno Marcos ha tirato un passante sulla riga… ma questa partite si vincono con il cuore e con l'appoggio della squadra”. Questa vittoria lo ha convinto a giocare un anno in più, per assaporare il Gruppo Mondiale, annusato soltanto una volta, nove anni prima. “E tutto questo è reso speciale dalla presenza del mio idolo d'infanzia, Andres Gomez, che è qui e mi ha insegnato molto”. Mentre lo diceva, Gomez gli dava un delicato bacio sulla guancia mentre una bandiera dell'Ecuador gli volava sulla spalla, dando ancora più colore a una giornata storica. I brasiliani capirono e concessero il giro di campo all'Ecuador, con tanto di timidi applausi. Perché certe imprese vanno oltre le bandiere e il fattore campo. Lapentti era già una leggenda del tennis ecuadoriano, ma quel giorno ha scolpito il suo nome nell'eternità. Qualche mese dopo, lo avrebbero premiato come “Sportivo Ecuadoriano dell'Anno”. Con la statuetta in mano, disse: "Questo trofeo mi spinge ad andare avanti affinché la bandiera del mio paese continui a sventolare alta e a luccicare in tutto il mondo". Il tutto mentre risuonavano le note di una canzone che è impossibile non imparare a memoria.
Con amor hoy yo quiero cantar,
Sí, señor, a mi lindo Ecuador.
Con amor siempre debes decir,
Por donde quiera que tú estés,
Ecuatoriano soy.