L'OPINIONE – Per il numero di dicembre della rivista Il Tennis Italiano siamo andati a Siena, a casa di Paolo Lorenzi e dei suoi genitori, per farci raccontare la parabola che l’ha reso numero uno d’Italia a (quasi) 35 anni. “Paolino” ha diviso i meriti col coach Claudio Galoppini, che ne ha accompagnato ascesa. E ci ha spiegato il suo punto di vista…A giudicar dalle parole di Paolo Lorenzi, che potete leggere nella lunga intervista – a casa sua, a Siena – pubblicata sul numero di dicembre della rivista Il Tennis Italiano (disponibile in edicola e su tablet e smartphone), di lui non si parla abbastanza. Lui inteso come Claudio Galoppini, il coach che nel 2009 ha iniziato a lavorare con un giocatore normale, nel momento più duro della sua carriera e otto anni più tardi si ritrova a fianco del nuovo numero uno d’Italia. L’inizio dell’ascesa di Lorenzi coincide col suo arrivo, nel 2009, insieme al preparatore atletico Stefano Giovannini. E ovviamente non c’è nulla di casuale. Ci siamo fatti raccontare il loro percorso.
Quando Paolo mi propose di iniziare a lavorare insieme non lo conoscevo particolarmente, così andai a vederlo al Challenger di Napoli. Mi resi subito conto che giocando come allora non aveva particolari chance per ambire a salire di livello. Ci confrontammo a lungo, per capire su quali aspetti lavorare per provare a costruire un progetto vincente. Io e Stefano Giovannini (il preparatore atletico, ndr) abbiamo trovato una persona molto umile, che conosceva bene la mole di lavoro richiesta per raggiungere certi obiettivi, ed è stata disposto a costruirsi pezzo dopo pezzo. Paolo è spinto da una grandissima motivazione, dovuta al fatto che in campo si diverte e ha una passione enorme per il tennis. Credo che anche lui abbia trovato in me e Stefano qualcosa di particolare. Per fare volentieri questo lavoro io ho bisogno di avere a fianco persone con cui mi sento a mio agio dal punto di vista umano. Ho un’attività al circolo e una famiglia impegnativa: non mi potevo permettere di dedicare tanto tempo a un giocatore che non mi motivasse e non fosse riconoscente nei confronti del mio lavoro.
Quando è iniziata la nostra collaborazione non avrei mai pensato che Paolo potesse ottenere questi risultati, ma sinceramente non sono stato nemmeno a pormi il problema. Dopo aver seguito alcune ragazze (pure Roberta Vinci, ndr) per conto della Federazione, da qualche tempo lavoravo solamente al circolo, quindi avevo voglia di rimettermi in gioco con un atleta di alto livello. Non abbiamo fissato obiettivi a lunga scadenza, ma le cose hanno iniziato a migliorare da subito. Già quell’anno Paolo è entrato fra i primi 100 del mondo, salendo fino al numero 83, e anche se poi c’è stato qualche piccolo passo indietro la crescita non si è mai fermata. L’appetito vien mangiando: è normale alzare sempre l’asticella. Altrimenti si rischia di andare indietro. Questo spirito ci ha spinto a cercare nuovi limiti, nuovi margini di crescita, senza fermarci sugli aspetti acquisiti. La nostra visione è molto propositiva: capire sempre cosa migliorare, senza aspettare.
Io non ho fatto nulla di diverso da ciò che sono sempre stato abituato a fare. La bacchetta magica non ce l’ha nessuno, sono certo che Paolo avesse già dentro di sé tutte queste potenzialità, bisognava solo trovare il modo di tirarle fuori. È come se il lavoro con noi abbia tolto il tappo a un vulcano: si è reso conto che lavorando in un certo modo poteva ottenere risultati importanti, si è accorto che la classifica migliorava, la determinazione è andata sempre aumentando ed eccoci qui. Da parte nostra c’è grandissima soddisfazione per i risultati ottenuti, e se la nostra collaborazione sta durando da così tanti anni è perché secondo Paolo si è lavorato a dovere. E non è scontato: capita che un giocatore, quando le cose funzionano meno bene, tenta subito a mettere in discussione chi gli sta intorno, e magari non sé stesso. Paolo invece, anche nei momenti in cui ha ottenuto meno risultati, ci ha sempre dato tantissima fiducia. Noi la percepiamo, e visto che arriva da una persona intelligente è ancora più apprezzata.
L’aspetto positivo del lavoro con un giocatore come lui è che non si deve perdere troppo tempo a parlare del giusto atteggiamento in campo. Rispetto a molti colleghi è un passo avanti. Si allena sempre con la massima concentrazione, sa cosa deve fare, e non perde tempo. E col salire di livello le cose non sono cambiate di una virgola: il suo approccio è lo stesso di quanto giocava i Challenger, e credo sia uno dei motivi per i quali continua ad avere lo stesso entusiasmo. Col tempo è un po’ calata la quantità degli allenamenti, perché con l’età che avanza fa più fatica a tollerarla, ma in compenso è migliorata la qualità. Anche Paolo è umano, ha dei momenti di difficoltà, e quando si sente meno sicuro comincia a essere più ansioso. Fino a qualche tempo fa quando andata a giocare un torneo importante aveva meno sicurezze. Oggi invece si sente a suo agio anche nei tornei maggiori. Con lui si parte sempre un passo avanti: non c’è bisogno di motivarlo, e quando sbaglia un atteggiamento è il primo ad accorgersene. E si corregge da solo.
Quando si arriva a questi livelli bisogna cercare di migliorarsi sempre, per restare al massimo. Tutti i migliori giocatori del mondo hanno un servizio più efficace rispetto a Paolo, quindi uno degli obiettivi per le settimane di preparazione è quello di provare a crescere da quel punto di vista. Sia cercando ancora un po’ di velocità, magari migliorando in fase di spinta, sia costruendosi angoli migliori. Un altro aspetto importante è la vicinanza alla linea di fondo: Paolo si è accorto che avvicinandosi è riuscito a fare molta meno fatica per battere avversari con i quali prima soffriva di più, quindi proseguiremo in questa direzione. E, per ultimo, proveremo ad aggiungere qualche variazione in più nel gioco da fondo campo. Sulla terra Paolo riesce a variare alzando le traiettorie, mentre sul veloce, quando gli avversari comandano il gioco, sente di non avere armi. Non ha il tempo per alzare la parabola, quindi non riesce a rallentare il gioco e far pensare gli avversari. L’obiettivo è usare di più il rovescio tagliato: non più solo in difesa, ma anche come arma. La classifica dipende da tanti fattori non quantificabili a priori, ma l’importante è avere il giusto atteggiamento ed essere ben preparati, per andare a combattere match dopo match. Quest’anno Paolo non ha avuto problemi fisici, i risultati si sono visti e hanno lasciato tantissima fiducia. Oggi è un atleta molto più consapevole delle proprie possibilità, e sa che sta bene può arrivare in fondo in tanti tornei.
LO SPLENDIDO 2016 DI PAOLO LORENZI
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DI SEGUITO UN BREVE ASSAGGIO DEL REPORTAGE DA CASA LORENZI…
«Eccomi!». Paolo Lorenzi spunta da un angolo di Piazza del Campo, al guinzaglio la cagnolina Emily e intorno la solita pattuglia di turisti che affolla la sua splendida Siena, tutti armati di selfie-stick. È un tranquillo mercoledì di novembre, con il freddo che inizia a farsi sentire e sette tornei di fila nelle gambe, ma basta la parola off-season a mettere il sorriso. Il suo è lo stesso di quando ha battuto Gilles Simon allo US Open, coi crampi ovunque, dopo cinque set e cinque ore, regalandosi l’Arthur Ashe Stadium con Murray e il best ranking: numero 35, come gli anni che festeggerà lunedì 15 dicembre. Quelli aumentano, la classifica ATP diminuisce, come se la ricetta per migliorare fosse la stessa di un buon vino: invecchiare. In realtà, dietro a un crescita sportiva che lascia stupiti, c’è una storia di enorme perseveranza. La racconta compiaciuta mamma Marina, nel salotto di un elegante appartamento nel centro storico, dove vive col marito Marco. Bastano pochi minuti per capire da dove arrivano le qualità umane del figlio, che nella vita contano più di un buon dritto. «Sorpresi di questo exploit? Per niente. Ma sarebbe lo stesso se fosse fuori dai primi 100. Però se lo meritava prima, le premesse c’erano. È stato bravo a non mollare e crederci sempre». Dopotutto, se il figlio è diventato un tennista, il merito è anche suo e del tempo trascorso al Circolo Tennis Siena. Se lo ricordano tutti: biondo, piccolissimo, passava le giornate a cercare qualcuno che giocasse cinque minuti, fra un’ora e l’altra. «E ogni volta che accompagnavamo ai tornei suo fratello Bruno (di tre anni più grande, n.d.r.), appena mettevamo piede nel circolo Paolo cercava un muro per giocare. Lo stesso faceva sotto casa: diceva di essere Becker. Colpiva palle da mattina a sera, i vicini lo odiavano»…
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