L’INTERVISTA – Il 22enne siciliano vede l'ingresso fra i top 100. A quasi due anni dal successo a San Marino che lo lanciò, è tornato a vincere un Challenger. Ci racconta la sua vita, fra qualità, difetti, e quel sogno nel cassetto per ripagare mamma e papà.In una recente intervista, Massimo Sartori è stato chiaro. “Il primo obiettivo del progetto Bordighera è portare fra i primi 100 del mondo Marco Cecchinato”. Quel ragazzo siciliano che qualche anno fa si trasferì dalla calda Palermo alla fredda Caldaro per seguire le orme di Andreas Seppi, esempio di professionalità e abnegazione, e lo impressionò per una qualità preziosa come l’oro: la capacità di vincere le partite. Qualche stagione più tardi, dopo una crescita continua sotto la guida di coach Cristian Brandi e del preparatore atletico Umberto Ferrara, l’azzurro festeggia il best ranking alla posizione numero 124, sempre più vicino al traguardo. Sembrava già pronto a tagliarlo nell’estate 2013, quando da wild card sbancò il ricco Challenger di San Marino battendo tre top 100, invece ha accusato un po’ di sano appagamento ed è ancora in attesa. Ma la scorsa settimana è tornato a battere un colpo, vincendo il neonato Challenger di Torino e dando all’Italia il primo successo stagionale.
Via il dente via il dolore: il 2015 sarà l’anno dell’ingresso fra i primi 100?
Speriamo. Da quasi due anni sono stabile intorno alla 150esima posizione, e sono già abbastanza contento di questo risultato. Nessuno credeva ci sarei riuscito. Ora mi sto impegnando al massimo per scalare l’ultimo gradino, che mi porti dentro ai 100. Sto lavorando molto, ma c’è ancora tanta strada da fare. Bisogna trovare più costanza nei tornei e provare ad arrivare sempre in fondo, imparare a stare ‘focus’ anche nei momenti di sofferenza e abituarsi a vincere i tornei Challenger.
In questo momento l’attenzione è soprattutto sui ragazzi più giovani di te. Questo ti toglie un po’ di pressione?
In realtà non mi cambia molto, perché non sono mai stato al centro dell’attenzione. Ho sempre seguito la mia strada senza grandi aspettative. E poi, è vero che tutti hanno fretta di veder arrivare loro, ma fra i top 100 non è che ci siano così tanti under 23 da farmi sentire vecchio. Credo che questa sia l’età migliore per entrarci e mi sento sulla buona strada.
In effetti fino a qualche anno fa si parlava pochissimo di te, i ’92 su cui puntare sembravano altri: Miccini, Gaio, Colella, Bortolotti. Poi cosa è cambiato?
Fino a sedici anni ho giocato pochissimi tornei, ero il primo a non credere di poter arrivare a certi livelli. Poi è scattato qualcosa, ma non saprei identificare cosa. Ho iniziato a giochicchiare benino, da under 18 ho colto qualche risultato, poi ho iniziato a vincere qualche partita nei Futures, quindi ci sono riuscito anche nei Challenger, sino ad arrivare alla famosa vittoria a San Marino, che mi ha fatto scalare un sacco di posizioni. Era l’agosto del 2013 ma sembrano passati cinque anni.
Forse quel titolo è arrivato troppo presto?
Non penso, è stata una settimana incredibile, in cui ho battuto tanti giocatori di alto livello. Forse dopo quel successo mi sono sentito un po’ appagato, come se fossi già arrivato al mio massimo. E poi ha influito anche un piccolo incidente che mi ha obbligato a circa un mese di stop, poco dopo quel titolo. Sono scivolato dagli scogli e mi sono dovuto fermare per un problema a gomito e caviglia, perdendo settimane importantissime, dove far fruttare la fiducia accumulata a San Marino. Ma anche quel periodo mi è servito a maturare. Ho capito di poter fare ancora tanta strada.
A livello ATP hai giocato sei incontri: tutti lottati, di cui cinque al terzo e spesso contro ottimi avversari. Ma tutti persi. Senti una pressione particolare?
No, ma evidentemente mi manca ancora qualcosa, quel poco che fa la differenza fra vittoria e sconfitta. Spero che questo benedetto primo successo arrivi alla svelta, così da prendere fiducia e provare a frequentare il più possibile il circuito maggiore, ben altra cosa rispetto ai Challenger. Mi sento pronto per giocarmela con tutti.
L’approccio al match cambia se ti trovi di fronte un giocatore intorno alla 200esima posizione, come capita nei primi turni dei Challenger, o il Garcia-Lopez di turno?
No, la concentrazione deve essere sempre la stessa, perché in questo sport può succedere di tutto. Il numero 300 può battere il numero 50, così come il numero 800 può perdere da uno senza punti ATP. Tutti giocano bene, per questo l’attenzione deve sempre essere altissima.
C’è disparità tra il tuo rendimento sul veloce e quello sulla terra. Forse per entrare stabilmente nei 100 serve qualche risultato in più anche sul duro…
Essendo cresciuto sulla terra, non ho mai avuto delle basi su come giocare sul cemento. Però ultimamente mi sono adattato. Nel 2014 ho avuto coraggio di investire i primi due mesi dell’anno a giocare solo sul duro, vincendo veramente pochissime partite, e lo stesso ho fatto quest’anno, andando a giocare le qualificazioni a Indian Wells e Miami. Ho fatto la scelta più difficile per provare a crescere, e devo dire che è stata un’esperienza molto utile, sotto tanti punti di vista. Mi ha aiutato a migliorare, e i progressi fatti con servizio e rovescio (storico punto debole, ndr) hanno le radici in queste scelte.
Che obiettivo ti sei posto per il 2015?
Voglio solo continuare su questa strada. Ho vinto tante partite, sono contento di come sta andando.
Che ruolo ha avuto la tua famiglia nella tua crescita tennistica?
Dovrò ringraziare a vita i miei genitori. Ora nel circuito capita spesso di vedere padri o madri che girano per tornei, mettono tante pressioni ai figli e si sentono degli intenditori di tennis. I miei mi hanno sempre sostenuto nell’ombra, lasciandomi libero di fare le mie scelte e appoggiandomi nei momenti difficili. Per il resto non si sono mai intromessi in nessun aspetto della mia vita di giocatore.
E come ti piacerebbe ripagarli?
Spero di riuscirci col mio sogno nel cassetto: entrare fra i primi 50 del mondo. Di sicuro li renderei felici.
Hai parlato di top 50. Firmeresti per una carriera alla Lorenzi, che nei 50 ci è arrivato a 31 anni, dopo tante stagioni nelle retrovie?
Diciamo che spero di arrivarci nel giro di due anni, così da averne davanti ancora una decina per giocare a quei livelli. Sarei felicissimo di riuscirci, metterei la firma adesso. Comunque tanto di cappello a ‘Paolino’, una persona speciale. Sono felicissimo per lui dei risultati che ha ottenuto.
Qual è il tuo rapporto con la Federazione?
Negli ultimi anni mi hanno aiutato molto, e continuano a farlo. In più, posso appoggiarmi al Centro Federale di Tirrenia ogni volta che ne ho bisogno. Ci sono stato una settimana prima di partire per il Sudamerica, e mi hanno trattato con i guanti.
Che genere di persona di ritieni?
Sono un ragazzo molto sincero, se devo dire qualcosa a qualcuno lo dico in faccia, senza peli sulla lingua. Purtroppo, a causa della grande rivalità presente, questo ambiente è pieno di persone false o finti amici. Io non sono così: se uno non mi sta simpatico preferisco non averci alcun rapporto. Voglio essere me stesso, in un ambiente in cui è difficile trovare dei veri amici.
Però sembrerebbe che tu li abbia…
Certo, ho alcuni amici stretti sui quali posso contare e confidarmi nei momenti difficili, ma non ne voglio avere tantissimi. I veri amici sono due o tre, non possono essere venti. L’amicizia ormai è un sentimento molto raro. Non ci sono tante persone vere. Io preferisco avere pochi amici ma buoni.
L’aspetto più difficile della vita di un ventiduenne in cerca di gloria?
Viaggiare ogni settimana, prendere tanti aerei e non avere mai un vero punto di riferimento. Bisogna fare tanti sacrifici, è una vita abbastanza difficile. Non è magari come quella di un impiegato, con la sua casa e la sua famiglia. Punti fermi che noi non possiamo avere.
E i coi guadagni come te la cavi?
Nelle posizioni di classifica in cui navigo io non ci sono grandi entrate, e sostenere le spese di un’intera stagione, con coach e preparatore atletico al seguito, è faticoso. La differenza la fanno i tornei grossi: vincere degli incontri negli Slam o nei Masters 1000 cambia tutto.
Ti è mai capitato di non sentirti all’altezza delle tue ambizioni?
Sì, più volte, in questo ambiente è una cosa abbastanza scontata. Molte settimane ti senti inferiore agli altri, alcune ti senti superiore. È una vita difficile, di alti e bassi. Si ottengono grandi risultati che lanciano l’autostima, oppure inattese sconfitte che generano periodi negativi. Capita di buttarsi giù di morale.
Cosa conta di più nel tennis di oggi?
Per fare la differenza è necessario essere preparati il più possibile dal punto di vista fisico, e poi avere due attributi grandi come una casa.
La tua miglior qualità?
Mi piace la pressione della partita, i momenti di tensione. Amo lottare, anche se ogni tanto capita di mollare la presa con la partita.
E il peggior difetto?
Molto spesso mi fisso su alcune cose ed è veramente difficile farmi cambiare idea. È così anche in campo. Magari non entra la prima di servizio e mi focalizzo su quello, invece di pensare a tutte le altre cose che invece stanno funzionando. Però è un aspetto sul quale sto lavorando tanto dal punto di vista mentale. Un altro modo per migliorarmi.
Chiudiamo con la Coppa Davis. Sei numero sei d’Italia, lo scorso anno hanno accompagnato la nazionale Donati e Quinzi, a marzo è toccato a Vanni. Arriverà il tuo turno?
Mi piacerebbe molto, ma non come quinto uomo come avvenuto agli altri. Io spero di essere convocato da titolare, perché significherebbe essere entrato fra i primi quattro giocatori d’Italia.
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