È la grande novità del tennis azzurro, capace di arrivare in semifinale a Roland Garros e far innamorare gli appassionati grazie a un tennis diverso e a un colpo in particolare: la smorzata alla Cecchinato. Ci ha raccontato sogni, paure e ambizioni di chi è ripartito dalle retrovie e adesso ha obiettivi importantiOggi Marco Cecchinato giocherà la semifinale del torneo ATP di Doha contro Tomas Berdych. Alla fine della scorsa stagione, siamo andati a trovarlo a Bologna per farci raccontare il suo straordinario 2018 e le ambizioni per questa nuova stagione.
Pazzesca. Inaspettata. Così Marco Cecchinato ha sintetizzato una stagione straordinaria, culminata con la semifinale a Roland Garros, a quarant’anni dall’ultima impresa di Corrado Barazzutti. L’abbiamo raggiunto in centro a Bologna, dove ormai fa base quando non viaggia per tornei, per ripercorrere un 2018 che l’ha lanciato nella top 20 mondiale. Tra (tante) superstizioni e nuove certezze, un team affiatato e una preparazione ossessiva, l’ambizione è quella di crescere ancora. Nella consapevolezza di aver già conquistato gli appassionati italiani. Grazie soprattutto a una smorzata.
Qual è stato il tuo primo pensiero appena hai perso l’ultimo punto della stagione scorsa, contro Joao Sousa a Bercy?
Finalmente sono in vacanza e me ne vado alle Maldive! In realtà, già prima del match pensavo potesse essere l’ultimo match dell’anno perché sono arrivato sfinito. E non ero l’unico in quelle condizioni. Però ripensando alla mia stagione, le prime due parole che mi vengono in mente sono pazzesca e inaspettata.
Pazzesca perché…
Nessuno si aspettava un’annata di questo genere, con la semifinale a Roland Garros, due tornei ATP vinti, una semifinale sull’erba, un terzo turno sul cemento. Tante belle vittorie, su tutte le superfici e questo mi fa piacere perché molti dicevano che ero solo un terraiolo. E, anche dopo la semi a Parigi, qualcuno pensava fosse un caso e invece ho chiuso il 2018 tra i primi venti al mondo.
Ma se incontrassi Moraing, Mousley e Ofner, tre dei giocatori che ti hanno battuto a inizio anno, come gli spiegherei che adesso stai lassù?
Che erano i primi mesi dell’anno e dovevo ancora carburare! In effetti a inizio anno faccio sempre un po’ fatica, però, al primo colpo di fortuna, il ripescaggio nel tabellone principale di Budapest, ho subito approfittato dell’opportunità vincendo un torneo contro avversari forti come Seppi, Dzumhur, che era primi trenta al mondo, e in finale quel John Millman che poi tutti hanno scoperto essere un ottimo giocatore quando ha battuto Federer allo US Open. Ma in realtà avevo fatto un bel carico di fiducia già a Monte Carlo, quando avevo superato le qualificazioni e fatto match pari con Raonic, anche se il segreto è stata la preparazione invernale: ossessiva in ogni dettaglio.
Ciò fa pensare che in precedenza non era mai andata così.
Non avevo mai messo questa attenzione maniacale. Quest’anno ho curato tutto alla perfezione: la tecnica, l’alimentazione, il fisico, gli integratori, il riposo: piccole cose che, tutte insieme, fanno la differenza. Prima non mi ero mai messo in gioco totalmente, non avevo mai dato il 100% ogni giorno per quattro settimane, perché dietro ai risultati che ho ottenuto ci sono stati tanti sacrifici, anche fisici. Prendi Parigi: giocare sei match al meglio dei cinque set, alcuni molto duri, non sarebbe stato possibile senza una preparazione così meticolosa.
In cosa ti senti migliorato particolarmente?
Nel rovescio, soprattutto lungolinea: quanto mi ha aiutato a Parigi! Ho tolto i freni e ho voluto scoprire i miei limiti, per capire dove potevo arrivare. Sono maturato e diventato un uomo e questo grazie anche alla mia fidanzata, Peki, (Gaia Pecorelli n.d.a.): lei è più grande e mi ha aiutato a mettere ordine nella mia vita e nei miei pensieri.
Il tutto a 26 anni: perché non prima?
Beh, meno male che è successo a 26 e non a 35! I tennisti italiani spesso maturano a 30 anni…
Spiegazione offerta da molti, eppure Donnarumma è italiano e ha esordito nella Nazionale di calcio da minorenne.
Mah, forse per i tennisti è diverso. È difficile da spiegare, ognuno ha un’età in cui matura. Comunque, meglio tardi che mai!
Una volta Goran Ivanisevic mi disse che il peggior infortunio che può capitare a un tennista è… una donna: per te sembra il contrario.
Dipende dalla donna! Evidentemente io sono stato fortunato perché Peki mi ha aiutato a crescere e a non ragionare più da ragazzino. Questa maturazione personale è alla base anche dei miei progressi in campo.
Invece tecnicamente su cosa avete lavorato nello specifico per migliorare ‘sto rovescio?
Soprattutto nel salire meno rapidamente verso l’alto con la racchetta dopo l’impatto ma portarla più avanti. E poi prima colpivo andando indietro, quasi scappando dalla palla, mentre ora lo faccio andando incontro: è un colpo che non mi fa più paura. Comunque, già negli ultimi mesi ero migliorato: tre anni fa, il mio rovescio lo chiamavano bancomat perché mi tiravi lì e incassavi di sicuro.
Immagino che anche in passato ne avrai colpiti migliaia di rovesci: cosa è riuscito a farti cambiare un gesto che ormai sarà stato meccanizzato da braccio e mente?
L’approccio al colpo. Prima lo subivo, ora lo colpisco con aggressività, bello pieno. Poi quando vedi i risultati, arriva anche la fiducia.
Parola magica di voi giocatori: si può spiegare cosa si prova quando si è in fiducia?
Difficilissimo. Ti senti più sicuro, più forte, entri in campo con una mentalità diversa. Ma purtroppo non si può allenare, è uno stato d’animo, un’emozione che da aprile in poi non mi ha più abbandonato. Dopo Monte Carlo ho capito che potevo lottare con tutti, dopo Budapest che potevo batterli, dopo Parigi mi sentivo imbattibile!
La vita fuori dal campo può influenzare il tuo stato d’animo durante un match o si riesce a cancellare tutto, una volta che si comincia a lottare in partita?
Per quanto mi riguarda, tutto ciò che succede fuori dal campo me lo porto dentro. Non sono due mondi separati. Se qualcosa non funziona nella mia vita personale, non è che schiaccio un bottone prima del match e dimentico tutto. Però vale anche il contrario: ora che mi sento maturato come persona, mi sento più forte anche come tennista. Prima sui punti importanti mi tiravo via, ora li gioco con coraggio.
Nell’ultimo match della stagione contro Sousa, dopo che hai sbagliato un passante di dritto non impossibile, hai urlato: «Tre mesi fa, su questa palla…
… facevo un buco per terra! In quel colpo c’era tutta la stanchezza di una stagione esaltante ma anche molto dispendiosa, sotto tutti i punti di vista. Già dal torneo di Mosca ero in fase calante però avevo buone sensazioni anche sulle superfici indoor e questo è confortante.
Già a Wimbledon, coach Massimo Sartori, che ha creduto sin dal principio nelle tue possibilità, mi disse: «L’anno prossimo sarà il più difficile per Marco perché dovrà confermarsi su certi livelli e tutti si aspetteranno grandi cose»: c’è più ambizione nel migliorarsi ancora o paura di fare un salto indietro?
Dopo Parigi ci ho pensato spesso: sarà stato solo un caso come qualcuno dice? Poi sono tornato subito ad allenarmi tanto, non mi sono accontentato, ho fatto buoni risultati su erba e cemento, ho vinto un altro ATP su terra rossa e dunque credo che se manterrò questo livello, non vedo perché non possa crescere ancora. Il mio sogno era entrare nei primi 100 giocatori del mondo, quest’anno sono arrivato fino al numero 19: l’ambizione c’è, anche perché rifarò tutto allo stesso modo, con lo stesso staff, nello stesso posto, con la stessa ossessione di far bene. Un po’ di paura c’è, ma se continuo a lavorare credo di potermi togliere tante soddisfazioni.
Sai di essere il giocatore più odiato da Rafael Nadal e Roger Federer?
Perché ho svegliato Djokovic battendolo a Roland Garros! Ho rivisto quel match tante volte anche se lo ricordo a memoria. E non ho paura che possa cambiare il finale, so benissimo dove va a finire quella palla sul match point. Però non sarebbe cambiato nulla, Djokovic avrebbe ricevuto la scossa in un altro torneo perché ha troppe qualità fisiche e mentali per non tornare al top. Per me è stato pazzesco perché un giocatore non viene ricordato per il ranking ma per le imprese che ha realizzato e un italiano che torna in semifinale Slam dopo quarant’anni, battendo un tizio che è stato numero uno al mondo per oltre duecento settimane, è qualcosa che resterà nella storia. Tutto l’insieme è stata una favola.
Ripensando a quei momenti, qual è il primo flash che ti viene in mente?
Il primo match, sotto due set contro Copil: quel giorno è stato decisivo. Partivo favorito ma quello mi serviva a 230 km/h e non mi dava chance: qualche anno fa avrei mollato, quest’anno è tutto diverso. E poi anche contro Carreno Busta ero sotto e contro di lui non avevo mai vinto un set. Tutti ricordano il match contro Djokovic, per me questi due sono stati ancora più importanti.
Cos’è cambiato nel luogo sacro dei giocatori, gli spogliatoi?
Prima mi salutavano in pochi, sembravo invisibile, adesso parlo con i top players, mi alleno con Djokovic, è un’altra vita, c’è molto più rispetto. E anche la vita nel circuito è diventata più divertente. Fino ad aprile mi sentivo un pesce fuor d’acqua, adesso sono uno di loro.
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