Un brutto infortunio al ginocchio ha messo KO Brian Baker da ormai due anni. Ma il suo amore per il tennis era già stato forte a sufficienza per regalargli un paio di stagioni magiche dopo una collezione impressionante di infortuni. DI FEDERICO FERRERO

Ci fosse un riconoscimento da assegnare a Brian Baker, forse il più calzante non sarebbe quello – come lo si definirebbe nel linguaggio del giornalismo da bar – per l'abnegazione1. Non è un campione di sacrificio, Baker: piuttosto rappresenta un esempio di uno smodato consumatore di amore e passione. Per se stesso e per lo strumento della sua soddisfazione, la pratica dello sport che scelse in gioventù a Nashville, Tennessee.

Baker era un ragazzo del 1985 mantenuto, cura tecnica e denaro, sotto l'ala protettiva della Usta. E ben oltre la maggiore età: si credeva tanto, in lui. Non che fosse un cannone come Roddick; per certi aspetti, però, era pure meglio. Così alto, si muoveva agilmente e soprattutto 'vedeva' prima la palla. Sembrava poter colpire con l'anticipo dei grandi anche applicate le velocità del circuito Atp. Sapeva scegliere il colpo giusto al momento giusto, insomma, c'era in lui l'impronta comune ai fuoriclasse. Il rovescio, poi, era già una favola negli anni Novanta, una versione ammodernata dell'impatto perfetto di Jimbo Connors. Il coach Ricardo Acuña, cileno di casa in Florida e sotto contratto federale con il comandamento di non far sbandare il miglior diciottenne del Paese, gongolava dopo l'Orange Bowl 2002, che Baker vinse in ciabatte dando la paga al povero Mathieu Montcourt2 in finale. Sapeva di avere per le mani «uno che ti capita una volta in vent'anni».

Baker perse la finale del Roland Garros minorile nel 2003 contro Stan Wawrinka; aveva battuto per strada, senza troppi problemi, altre piccole stelle dell'85 come Baghdatis da Cipro, Jo Tsonga da Le Mans. Due che avrebbero giocato una finale Slam a testa, entrambi in Australia, negli anni in cui Baker era in soggiorno all'inferno.

Brian arrivò al numero due del mondo Itf, avendo già giocato il primo match da professionista al challenger di Joplin, in Missouri. Aveva perso, per quanto possa contare, contro il fratellone di James Blake, Thomas: lui doveva compiere 17 anni, l'altro ne aveva 26. Una frenetica attività americentrica diede però forma alla sua classifica in tempi rapidi: ottocento, settecento, una wildcard a festeggiare i 18 anni per l'Atp di Washington Dc, i primi Us Open con un set strappato a Juergen Melzer. Quattrocento, trecento, sempre a botte di futures, challenger e wild card per gli eventi in terra madre. Duecento, centottanta. Baker si stava costruendo.

 

È trascorso un anno, agosto 2004. La wild card a Flushing Meadows è garantita per il rookie Baker, che si è fatto le ossa fino al metro e 91. È andata un po' meno bene ai fasci di muscoli ma il ragazzo ha personalità e pure, finalmente, una vittoria vera, quella del challenger di Denver. A non voler approfondire le cose il risultato dello Slam è zero, un altro stop al primo turno. Ma agli Us Open il primo turno può voler significare quattro set di badilate contro il fusto canottierato Carlos Moya, allora numero 4 al mondo. Una bella sconfitta, la chiamano al bar. Forse l'ultima al primo turno in uno Slam. Il 2005 è quello dell'addio ai teen, Brian diventa uomo. Eppure, per la prima volta, la classifica stagna. A fine estate gli viene concessa, con dissapore lievitante, una terza possibilità per entrare gratis agli Us Open. Se la gioca da apprendista campione: batte il reuccio fortunello del Roland Garros di quell'anno, Gaston Gaudio, scalda il cuore degli appassionati e lascia il torneo tra pacche e sorrisoni con una match di qualità ceduto a Xavier Malisse.

 

Ma c'è qualcosa che non va, lui e Acuña lo sanno, il resto del mondo no. Due settimane prima, giocando contro un giovane scozzese iracondo e dotatissimo, Andy Murray, Baker ha avvertito un dolore strano, via via più intenso. Il torneo conta poco rispetto allo Slam, è un challenger a Binghamton, New York. Eppure quel fuoco all’anca si fa sentire e non lo molla mai, neppure durante le partite degli Us Open, tanto da costringerlo a giocare impasticcato.

Baker torna nella sua Nashville per farsi vedere da un chirurgo noto nel giro dello sport, il dottor Richard Byrd. Un tizio che ha già operato per problemi simili due fuoriclasse del tennis, Guga Kuerten e Magnus Norman. Con poco successo sportivo: sono guariti come atleti, finiti come tennisti. Gli fa gli esami, gli consiglia di restare a riposo un po' e di riprovarci. Caso vuole che il challenger della settimana si giochi proprio a Nashville, a casa sua. Ormai è novembre. Baker si iscrive, perde subito. Vola nell'Illinois, a Champaign. Ha un male cane ma gioca ancora. Fuori al secondo turno contro Jeff 'Picchio' Morrison, giocatore già maturo e complicato da trattare sul cemento indoor. Il problema è che, nel frattempo, Byrd ha riempito la sua cartella clinica di risultanze degli esami. La sentenza sa di morte sportiva: Brian è nato col labbro acetabolare delle anche troppo fragile. Buono per un ragioniere, non per un tennista. Il labrum è una cartilagine delicata, deve sopportare carichi enormi se nella vita fai il giocatore professionista e non l'impiegato nella ditta più famosa dello Stato, la benemerita Jack Daniel's di Lynchburg. Unica via: operare subito, aspettare e sperare.

 

Quel primo intervento all'anca sinistra è un rimpianto con cui Baker ha fatto pace: «Ripensando a quegli anni sì, forse se avessi saputo in anticipo che il mio corpo aveva quei problemi mi sarei allenato diversamente, forse avrei tutelato quelle parti che soffrivano gli allenamenti e le partite. Le mie anche non erano sufficientemente mobili per uno sport come il tennis, che ti obbliga ad allungarti continuamente. Ma come si fa a dirlo oggi? E poi non mi piace neanche questo giochetto: è andata così, basta». In verità è andata anche peggio di così: Brian Baker scompare dal tennis in quel novembre del 2005. Gli passano sopra, come un'onda anomala di sfiga, metri cubi di esami clinici nefasti, programmi di riabilitazione, disdette contrattuali. Ha vent'anni, è al volante di un'auto competitiva che ha preparato per metà della sua vita e si è fermata dopo la prima curva della corsa. Decide, nella sua mente, di provarci ancora e di lasciare la data del rientro in bianco. Del resto ha iniziato a giocare a tennis nella culla: come dice Agassi per mano di Moehringer nella sua biografia, a volte giochi a tennis perché non c'è nient'altro che tu possa pensare di fare. Fai il tennista per esclusione. Passano così quasi due anni, l'ex tennista Baker è clinicamente guarito. Ha avuto occasione di aggiungere alla collezione due interventi: uno per la riparazione di un'ernia sportiva e l'altro, sempre nell'anno 2006, al labrum dell'anca destra. Perché gioca, a livello nazionale ma gioca. Chi lo sente commentare il Tour dal quale è stato cacciato a colpi di bisturi dice che sa di poter riprendere quel discorso, prima o poi, perché è damn good per il tennis, dannatamente bravo e non si vergogna a dirlo. È il novembre 2007 quando in calendario c'è, come sempre, il torneo della città, Nashville. Che bel momento per rientrare, l'invito è già pronto. Baker gioca, lo ferma negli ottavi Rob Kendrick. La settimana successiva, altro torneo: vince una partita a Knoxville. Ma la crudeltà del caso, o l'ennesima ribellione del suo corpo, torna con violenza a chiedere un conto che appare impagabile. Dopo una settimana di dolori lancinanti al gomito destro, a Baker il Capodanno 2008 regala un responso tragico: c'è il legamento collaterale ulnare del suo braccio destro che va ricostruito. Una cosa che nel tennis non si fa: semplicemente si smette, anche di giocare la domenica al circolo. L'intervento ha un nome, si chiama Tommy John surgery, nominata così dalla rivoluzionaria operazione cui fu sottoposto negli anni Settanta una stella della Major League di baseball.

Baker sa che è la fine, è che non osa chiamarla la fine della carriera: quella non è mai iniziata. Prima di farsi aprire il gomito pensa al dopo: dovrà trovarsi un lavoro. E lo fa, con l'iscrizione ai corsi dell'Università di Belmont. Laurea in economia aziendale, lavoro come assistente nella squadra di tennis. Studia e gioca con parsimonia, soprattutto dopo un quinto tagliando dal chirurgo: serve una piccola manutenzione all'anca sinistra. Dà esami e si danna alla televisione, «vedendo che alcuni ragazzi contro cui vincevo, Jo-Wilfried, Marcos e altri erano diventati forti e facevano il pieno di tornei, mentre io potevo giocare un'ora ogni due giorni. Non è che potessi passare le giornate a battere i pugni contro il muro: allora mi dicevo che forse, un giorno, avrei avuto ancora una chance di tornare a giocare». Solo che non succede.

 

 

È l'autunno del 2011 quando l'Università, con sorpresa, non registra l'iscrizione di Brian Baker. Gli manca un anno alla laurea. È successo che nell'estate ha giocato regolarmente, otto partite di fila in due Futures, e le cuciture da Frankenstein disseminate nel corpo non gli hanno procurato alcun dolore.Ci ha provato alla chetichella, senza avvertire nessuno se non gli intimi, e le sensazioni sono buone. I libri dei corsi sono rimasti in stanza, Baker ha incordato le nuove Babolat e sta vivendo la palingenesi del professionista: ha ventisei anni e mezzo ma l'esperienza del ragazzino. A Knoxville si qualifica e va in finale, altre otto partite e sette vittorie. Vuole chiudere l'anno a Champaign, in quella tappa della sua via della croce. Passa due mesi ad allenarsi come un pro e non gli viene neanche un raffreddore. Attacca il 2012 da 450 al mondo, a marzo ha già vinto due Futures. Inizia a trovare gente seria: Odesnik3, Tatsuma Ito che è nei primi cento. A Savannah si deve qualificare. Lo fa. Mette in fila Russell, Kendrick, Ginepri, Strode e Gensse. Ha vinto il secondo challenger della vita e non si vuole fermare, a costo di paracadutarsi al prossimo torneo. Che è l'Atp 250 di Nizza: ha il ranking per entrare nelle qualificazioni, deve solo coprire l'oceano di mezzo tra la Georgia e la costa Azzurra. Arriva in tempo per firmare, vince tre match di qualificazione. Negli ultimi undici, ha perso un set. Non riescono a fermarlo: ci prova Stakhovsky e si arrende. Gael Monfils (13) non gli resiste, due set a zero. Davydenko, idem. Brian Baker è in finale a Nizza, non ci credono neanche a casa dove hanno raccolto una valigia al volo e si sono imbarcati per l'Europa, destinazione la visione del miracolo di famiglia. Ci sono la fidanzata Alathea, papà Steve, un avvocato, mamma Jackie, insegnante di musica, e i fratelli Kathryn e Art. Non c'è molto da fare contro il campione in carica Nicolas Almagro ma poco cambia: già si sa che mamma Usta gli ha regalato l'ultima wildcard della sua carriera, dieci anni dopo la prima. Quella riservata a uno statunitense per il Roland Garros, stavolta è un atto di coraggio e di riconoscenza per un giovane uomo che ha categoricamente rifiutato di arrendersi. Le «quality wins» della primavera lo hanno restituito a una classifica impensabile, 140 al mondo. Sul centrale di Parigi, secondo turno, trascina sull'orlo del k.o. un giocatore di gomma come Gilles Simon, che esce vincente ma intontito4. A resurrezione compiuta, il resto è cronaca: Baker si porta i famigli a Wimbledon dove, manco a dirlo, passa tre turni di qualificazione e tre nel tabellone principale. Nasconde la palla a Nieminen, manca l'appuntamento con i quarti di finale per colpa di Kohlschreiber. A ventisette anni e tre mesi entra per la prima volta nei top 100. Si vendica di Kohlschreiber a Cincinnati, raccoglie soldi a sufficienza per non dover pensare troppo ai conti: trecentocinquantamila dollari con undici partite vinte nel Tour, qualificazioni e tornei minori esclusi. Si fa rivedere a Flushing Meadows, ingresso diretto senza passare per l’ufficio inviti né per il torneo di qualificazione, dove pesca Tipsarevic: uno dei pochi che riescono a decriptare il suo gioco, a partire da quel servizio pesante e solitamente imprevedibile.

 

Certe storie di passione avvincono anche chi le racconta. Chissà come ci si sente a essere Brian Baker oggi, il 55esimo tennista del ranking, dopo un salto quantico così straniante. Intorno a lui è cambiato tutto, sono passati campioni e imprese, lui se le è perse tutte. Eppure si comporta come se non fosse successo niente, come se avesse perso un treno e preso al volo quello dopo. Con un dettaglio, che il secondo è passato non dopo dieci minuti, ma dopo quasi dieci anni. E lui era lì, ad aspettare alla fermata. Se questo non è amore.

 

1 Abnegare non significa ciò che troppo spesso si pretende, cioè «sforzarsi per ottenere un risultato». Significa invece allontanare da sé i desideri e le soddisfazioni per dedicarsi al sacrificio in aiuto degli altri o, per i religiosi, in favore di Dio. Non va proprio usato per indicare lo sforzo che uno sportivo fa per affermarsi.

2 Mathieu Montcourt era un tennista francese coetaneo di Baker, morto il 6 luglio 2009. Fu trovato senza vita sul pianerottolo di casa, a Parigi, dalla fidanzata. Le notizie sull'autopsia e su ulteriori indagini per stabilire la causa del decesso sono state centellinate da famiglia e federazione. Probabilmente a stroncare Montcourt fu un'embolia polmonare. Senza voler (né, soprattutto, poter) indagare sui motivi della tragedia, che potrebbe essere stata una fatalità, è da dirsi che i casi di morte da embolia di individui giovani, sani e controllati come gli altleti professionisti sono rarissimi. E che l'assunzione di EPO (eritropoietina) rende il sangue più viscoso, aumentando notevolmente il rischio di trombosi ed embolie.

3 Wayne Odesnik è il giocatore statunitense che ha patteggiato una condanna lieve per possesso di GHT (l’ormone della crescita) in cambio di presunte rivelazioni utili agli inquirenti della WADA (l’agenzia mondiale antidoping) che però, finora, non hanno portato ad alcun provvedimento conosciuto.

4 Dirà Simon a fine partita, vinta 6-4 6-1 6-7 1-6 6-0: «Praticamente non mi ricordavo di Brian, è passato troppo tempo. Durante la partita ero impressionato: certe volte avrei voluto saltare la rete e dirgli 'Ehi, bravo, stai giocando un tennis fantastico'. Se avesse continuato a giocare come nel terzo e quarto set, mi avrebbe travolto».