Troppo spesso, nel tennis, abbiamo letto diagnosi di psicologia spicciola, buona per il supermercato o il bar dello sport. Esistono casi, tuttavia, in cui la mente è davvero l'origine di ogni male. Il silenzio dell'Aviva Center di Toronto è la pietra tombale della crisi di Eugenie Bouchard. La canadese si era presentata al torneo di casa piena di buone intenzioni, fresca del siluramento dell'ex coach Sam Sumyk e affiancata da Marko Dragic, poco più che uno sparring partner. Gli organizzatori le hanno dato massima fiducia, regalandole la Night Session al posto di Serena Williams. Ma lei ha deluso, miseramente, ancora una volta. Per il secondo anno consecutivo va fuori all'esordio della Rogers Cup, il torneo più importante della sua stagione (Slam esclusi). Nel 6-0 5-7 6-2 con cui si è arresa a Belinda Bencic c'è tutto il dramma della bella canadese, fasciata in un abito rosso fiammante, proprio come la bandiera del suo paese. Mancava giusto la foglia d'acero, orgogliosamente mostrata da Raonic a Montreal. Ma New Balance, evidentemente, è più flessibile di Nike. Il problema della Bouchard si racchiude in un concetto molto psicologico: negazione di un problema. Sta vivendo una crisi tremenda, certamente risolvibile, ma la cui durata inizia ad essere preoccupante. Gli strascichi rischiano di durare a lungo, fino a compromettere una parte di carriera. Il suo tennis non funziona più. Lei ne è consapevole, ma non lo accetta. Abbiamo capito che la Rogers Cup sarebbe stata un calvario già leggendo le dichiarazioni pre-torneo. “Ho la convinzione giusta, so che le mie capacità sono ancora vive e non possono essere scomparse. Devo solo lavorare duro”. Come a dire: lasciatemi continuare così, prima o poi la ruota girerà. No, Genie, non funziona così. Men che meno dopo aver cacciato uno dei migliori coach del circuito. Sam Sumyk ha una reputazione incredibile: ha fatto vincere 2 Slam a Vika Azarenka, l'ha condotta al numero 1 WTA e – ancora più importante – l'ha resa l'unica vera avversaria di Serena Williams. Eppure l'ha cacciato dopo appena sei mesi di collaborazione, come un presidente capriccioso che vuole tutto e subito. In Italia, Gianluigi Quinzi sta certamente perdendo tempo con una vivace girandola di coach. Speriamo che sia ancora in tempo per centrare gli ambiziosi progetti dei tempi junior. Fatte le debite proporzioni, la Bouchard sta entrando in una pessima spirale. "Sumyk? Avevo grossi problemi. Le cose non funzionavano. Ho sentito che era necessario un cambiamento" ha detto con gli occhi spenti della sconfitta.
NECESSITA' DI UN PIANTO CATARTICO
Aveva condiviso tutto con Nick Saviano. Insieme hanno ottenuto risultati incredibili, forse eccessivi, forse prematuri. Forse Eugenie si è montata la testa, lo ha salutato e ha alzato l'asticella. Legittimo, per carità. Ma doveva mettere in conto un periodo di assestamento. Invece no. Lei, così bella, così aggressiva, così brillante…si è trovata a perdere una partita dopo l'altra, a non imbroccare nei momenti importanti (quello contro la Bencic è stato l'ottavo terzo set perso, di fila). Eppure continua a giocare come se nulla fosse. Chiude gli occhi e…”bim, bum, bam”. Le avversarie hanno imparato a conoscerla, l'affrontano super motivate perché non apprezzano la sua personalità un po' naif, l'ostentazione, la forte personalità…mettici anche un pizzico di gelosia e il gioco è fatto. La canadese gioca un tennis ad alto rischio: non aspetta mai che la palla scenda, prova ad essere aggressiva con entrambi i fondamentali. Pur di non perdere campo, è disposta a colpire in controbalzo. E' possibile costruirsi una carriera con questo tipo di gioco? Solo se sei un fenomeno. E la Bouchard, non ce ne voglia, non lo è. Ma ha commesso l'errore di pensare da fenomeno. La soluzione? Umiltà. Ha bisogno di una profonda immersione alla fonte del dolore tennistico e riconoscere che così no, non può continuare a giocare. Deve anche fare un viaggio interiore ed esplorare le sue debolezze. Guardarle in faccia. Ha bisogno di un pianto catartico, un'esplosione di sincerità nella finzione delle sue apparizioni pubbliche, in cui ostenta una profonda sicurezza. E' convinta di sé, crede di essere nel giusto. Chi le sta accanto non gli sta facendo capire che la spirale è pericolosa. Non sappiamo come siano andate le cose con Sumyk: di certo la separazione non è stata accompagnata da canonici comunicati di ringraziamento. Silenzio, gelido come un vento invernale. Insomma, se la vita privata sta assumendo una sua forma (l'hanno paparazzata con l'aitante hockeista Jordan Caron), quella agonistica sta andando a rotoli. La Bouchard ha bisogno di qualcuno che le mostri la realtà. Magari Sumyk ci ha provato e lei ha rifiutato di guardarsi allo specchio. Ma prima o poi dovrà farlo.
54ESIMA NELLA RACE. E SENZA L'AUSTRALIA…
Anche piangere, se necessario. Piangere in pubblico, mostrare una fragilità evidente nelle sue partite ma celata dal suo sguardo, dai sorrisi, persino dal tono della voce. Deve ripartire da zero o quasi e non affidarsi a estemporanei momenti di lucidità. Ad esempio, è successo qualcosa del genere nella notte di Toronto contro la Bencic: sotto 6-0 5-3 (peraltro dopo essere stata avanti 3-0 nel secondo), ha trovato sprazzi del suo miglior tennis. Ha annullato un matchpoint sul 5-4 giocando un punto eccezionale (rovescio incrociato nell'ultimo fazzoletto del campo, dritto a chiudere dall'altra parte). Si è esaltata, con lei una Genie Army meno numerosa e meno rumorosa del solito, confinata in un angolo di uno stadio che per il torneo femminile non appronta tribune supplementari (come invece fanno per il maschile), e ha giocato tre game “formato 2014”. Le gambe (sempre più magre!) rispondevano ad antichi impulsi cerebrali e le fiondate lungolinea, aiutate dalla pesantezza della Bencic (che deve assolutamente controllare il fisico: a 18 anni, la tendenza a ingrassare è già evidente), sono diventate vincenti, quasi splendenti. Ma non ha esultato a dovere. In una situazione del genere, di possibile riscossa dopo il dolore, avrebbe dovuto mostrare un po' di sguaiatezza, di fervore agonistico. Senza scadere nel volgare, avrebbe dovuto autoincitarsi. Invece niente, come se fosse tutto normale, tutto ovvio. Quasi dovuto. Non lo era. E' partita benino nel terzo, ma si è capito che l'erezione agonistica era fine a se stessa. La Bencic, senza strafare, è salita 3-1, poi 5-2, infine 6-2 fino a chiudere con un bel passante lungolinea. Lei ha gridato “Come On!” per il timido applauso di papà Ivan e Martina Hingis, pure loro imbarazzati dall'assordante silenzio del campo centrale. In mezzo, una caterva di errori gratuiti. Ma non erano errori normali. Erano colpi concettualmente sbagliati, palle scentrate, sfere che volavano via di metri. Una tristezza infinita, immeritata per una ragazza dalle indubbie doti agonistiche e anche morali. Le ha smarrite perché non era pronta a capire che il tour è duro, un mondo di pescecani travestite da tenniste. Nella Race stagionale occupa un'umiliante 54esima posizione, alle spalle di giocatrici come Gasparyan, Tsurenko, Van Uytvanck, Hradecka e tante altre. Ma andiamo oltre. Senza i 430 punti dei quarti di finale colti in Australia, quando la crisi non aveva ancora preso forma, sarebbe fuori dalle prime 120. Piangi, Eugenie. Piangi finché sei in tempo.